A Barilla 90mila tonnellate di grano italiano. Ma come riconoscerlo una volta trasformato in pasta?

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Due notizie in arrivo dall’Emilia Romagna fanno ben sperare per il futuro del vero made in Italy alimentare. In settimana la Regione ha riconosciuto il “Distretto del pomodoro da industria Nord Italia” come organizzazione interprofessionale e interregionale. L’accordo dovrebbe consentire di valorizzare l’intera filiera che conduce dai campi all’industria di trasformazione fino alla tavola, limitando le importazione massicce di concentrato di pomodoro da Paesi come la Cina, protagonista con i propri prodotti di innumerevoli episodi di agropirateria.
L’altra notizia risale alla metà di dicembre: la Barilla ha siglato un’intesa con i produttori di grano duro emiliano romagnoli. Per la campagna 2012-2013 la corazzata degli spaghetti e dei tortiglioni acquisterà dagli agricoltori locali 90.000 tonnellate di grano duro di alta qualità. L’accordo prevede tre meccanismi per la fissazione del prezzo d’acquisto. Il primo calcola il prezzo a partire della quotazione della Borsa merci di Bologna con l’aggiunta di premi per la qualità del prodotto e può arrivare fino a 32 euro la tonnellata. Il secondo meccanismo si basa sui costi di produzione: gli agricoltori potranno vendere fino al 40% del totale prodotto a un prezzo concordato in partenza e tale da garantire un margine di profitto sui costi di coltivazione. Il terzo meccanismo, invece, si basa sul prezzo dei contratti futures del grano tenero scambiati alla borsa merci di Parigi, aggiustato dal differenziale dei prezzi tra il grano duro e quello tenero sulla borsa merci di Bologna. Sembrano complicati ma in realtà non lo sono. La vera missione impossibile, invece, è rintracciare sui banconi dei supermercati la pasta prodotta con il grano Made in Italy o i sughi fatti con i pomodori del Nord Italia. «Tutti questi sforzi rischiano di essere vani», afferma il consigliere regionale emiliano della Lega Nord Stefano Cavalli, «se non si introdurrà l’obbligo per i produttori di pasta di specificare la provenienza delle semole. Che fine farà la pasta prodotta con questo grano di qualità?», si domanda Cavalli, «finirà forse negli scaffali dei supermercati mischiata con quella ottenuta da grano kazako o messicano?».
Già, che fine farà? L’interrogativo è destinato a rimanee senza risposta, finquando non dovesse diventare obbligatorio introdurre in etichetta l’origine delle materie prime anche per le paste e i prodotti da forno, ugualmente derivati dal grano.
Da ultimo ecco cosa scrive in un comunicato la Legacoop Agroalimentare Nord Italia sull’intesa per valorizzare la produzione italiana di pomodori: «Siamo certi  che il distretto del pomodoro verrà utilizzato bene e con competenza per valorizzare il lavoro degli operatori della filiera e migliorare il reddito degli agricoltori, non in contrapposizione, ma in collaborazione con l’industria agroalimentare». Peccato che a scegliere la strada della contrapposizione non siano i produttori agricoli ma l’industria di trasformazione, da sempre contrarissima all’etichettatura d’origine. A volte il buonismo di ritorno di certe organizzazioni finisce per produrre dei paradossi.

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