Beretta va in Cina a produrre i salami made in Italy

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Fate una prova: aprite una pagina di un qualunque browser Internet e andate sulla funzione di traduzione automatica (chi utilizza Firefox come il sottoscritto può cliccare qui). Provate a scrivere: made in Italy. La traduzione sarà: «fatto in Italia» oppure «realizzato in Italia». Non prendetemi per matto so bene cosa significhi l’espressione che ci ha resi famosi in tutto il mondo. Il problema è che un numero crescente di imprese e di imprenditori fa finta di ignorarlo. L’ultimissimo caso in ordine di tempo è quello della Beretta. Quella dei salumi.
Sede a Barzanò (Lecco), nel cuore della Brianza, la società è una delle corazzate dell’agroalimentare italiano (ma non troppo, come vedremo più avanti): è al primo posto nella vendita di salumi e gastronmia fresca in Italia per valore. E proprio quest’anno festeggia il bicentenario della fondazione. Ma non potrebbe farlo peggio. Domani, infatti, alla presenza di Vittore Beretta, presidente maximo del gruppo, verrà inaugurato nel distretto di Dangtu (a 60 chilometri da Nanchino), in Cina, un nuovo stabilimento. A Ma’anshan, 9mila metri quadri di superficie e una capacità produttiva pari a 3.000 tonnellate l’anno, lavoreranno 150 dipendenti.
In realtà i salumi «made in Italy» fatti però nell’ex Celeste Impero, la Beretta li produce dal 2007, da quando cioé opera in joint venture con il gruppo locale Yrun. Di nuovo c’è la chiave con cui la società brianzola conduce questa nuova operazione. «Siamo molto orgogliosi di questa nuova apertura in un mercato in continua evoluzione come quello cinese», spiega Vittore Beretta in un comunicato diffuso oggi, «perché rappresenta una tappa importante del nostro percorso di crescita internazionale. La Cina è un paese che si caratterizza per avere un Pil nazionale in costante aumento, con un conseguente incremento del potere d’acquisto della popolazione e dei consumi. Un paese dalle grandi potenzialità che per Beretta rappresenta un terreno fertile da sfruttare al meglio e lo scenario ideale per affermare e consolidare sempre più il successo “dell’Italian Style” in ambito alimentare». Già, italian style… Non made in Italy.
Purtroppo il comunicato della società che i lettori di Etichettopoli possono consultare a questo link sostiene l’esatto contrario: «Con questo nuovo investimento, il Gruppo Beretta, da sempre orientato allo sviluppo dell’industria alimentare italiana nel mondo, segna un’altra tappa importante della storia del made in Italy nel settore alimentare fra tradizione, innovazione e ricerca all’insegna della qualità, affermandosi come uno dei migliori esempi di best practice italiana a livello internazionale».
Salame Milano, Coppa piacentina e Bresaola della Valtellina: saranno questi alcuni dei salumi che usciranno dall’impianto di Ma’anshan. Purtroppo di italiano avranno soltanto il nome. A meno che non si voglia far passare l’idea che basti questo, assieme alle tecnologie italiane, per definire «made in Italy» un prodotto fatto a migliaia di chilometri dal nostro Paese.Con materia prima locale, immagino. Altrimenti, vista la distanza, il salame si pagherebbe a peso d’oro.

Quando si dice «best practice»…
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5 COMMENTS

  1. Scompariranno tutti i prodotti Berretta da casa mia e da quella dei miei figli, grazie:
    Vittorio Papini
    PAPINI INTERFASHION SR

  2. c’è di peggio se pensiamo che fino a qualche anno fa c’erano dei sughi pronti che si chiamavano “ragù bolognese” e in realtà, in basso, c’era scritto che il prodotto non conteneva carne.. Questo è dovuto al fatto che in Cina c’è il divieto assoluto di importare carne, eccezione fatta per il prosciutto San Daniele e Parma e solo perché date le IGP e DOP, è considerato un alimento di lusso assoluto..
    In ogni caso, i prodotti distribuiti in Italia sono fatti con carne italiana…insomma Italia=carne italiana, Cina=carne cinese..
    Per quanto riguarda il made in Italy bisognerebbe andare a vedere quali sono gli standard tecnici/qualitativi richiesti per l’apposizione di tale scritta.. Ergo, sarebbe da “giudicare” chi fa questi standard piuttosto che le aziende che li applicano! (non fanno altro che seguire le regole…)
    In ogni caso non voglio difendere nessuno..solo ci tengo a chiarire le cose =)
    Cinzia

    • Cara Cinzia,
      so bene che le regole (purtroppo) si fanno sapendo che c’è chi vive per infrangerle. Mi sento però di chiarire un aspetto importante: mentre per le conserve di pomodoro vige l’obbligo di dichiarare l’origine della materia prima, per i sughi quest’obbligo non sussiste. E infatti, tranne qualche rara eccezione, quasi nessuno scrive in etichetta «Made in…».
      Fra l’altro la salubrità degli ingredienti e dei processi di produzione non garantisce sulla sostenibilità sociale della filiera. E trovo aberrante che si possano produrre a migliaia di chilometri dall’Italia salumi e formaggi con le denominazioni italiane.

  3. Anch’io penso sia assurdo produrre altrove con la dicitura “Made in..”, però se c’è una regolamentazione che glielo permette, non sono loro da giudicare ma piuttosto chi l’ha scritta!
    Comunque sulle confezioni che ho visto io di persona (logicamente non le ho visionate tutte) non c’è scritto da nessuna parte “made in italy”, c’è il logo principale della partner della joint venture e più piccolo, in basso, il logo italiano..
    Cinzia

  4. Vedo che il tema tiene banco. Chiedo un favore a Cinzia: visto che è così ben documentata perché non mi manda qualche esempio di queste etichette di “made in Italy” cinese? Così lo condividiamo con tutti.

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