Bonotto, il profeta della «Fabbrica lenta» che rilancia il vero made in Italy

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Giovanni Bonotto è uno dei quegli uomini che quando li incontri capisci subito che hanno qualcosa di speciale. Industriale vicentino di Molvena, è stato premiato quest’anno dalla Fondazione Masi per un’intuizione che rischia di farlo diventare l’Adriano Olivetti del nuovo secolo: l’invenzione della «Fabbrica lenta». Alla quarta generazione di imprenditori nel settore tessile rischiava di fare la fine di altre decine di colleghi vicentini. Scomparsi, schiacciati dalla concorrenza a basso costo dei Paesi emergenti: India, Cina, Vietnam. «Alle riunioni di Confindustria degli anni Ottanta eravamo una trentina a produrre tessuti in questa provincia», mi ha raccontato, «ora siamo rimasti in due, la mia azienda e Marzotto che è un gigante del settore, un vero campione mondiale. Per anni, a quelle riunioni, il ritornello era uno solo: dobbiamo abbassare il costo orario, produrre di più e più velocemente. Così i vecchi metodi di tessitura, le macchine in cui l’Italia ha avuto un primato indiscusso fino agli anni Cinquanta e Sessanta, sono andate in soffitta. Sostituite da quelle moderne: tanta elettronica e una velocità pazzesca. Eravamo tutti assillati da un obiettivo: produrre la stessa quantità di tessuto in un tempo minore. Una gara che non aveva fine. Se non quando l’azienda chiudeva».
All’inizio del decennio scorso arriva l’intuizione: basta velocità, torniamo alle lavorazioni e ai tessuti che hanno fatto grande il nostro Paese. Era il 2007 quando Bonotto fa arrivare dal Giappone dei vecchi telai manuali, di quelli che si usavano proprio nel Vicentino fino agli anni Sessanta. >Una macchina automatica a controllo elettronico», mi racconta, «produce 200 metri di tessuto al giorno e un operaio ne controlla anche 4 o 5. Basta premere un pulsante e il gioco è fatto. Eravamo diventati dei campioni mondiali quando si trattava di strucar el boton (schiacciare il bottone, nda) di start e stop. E Invece con un vecchio telaio giapponese degli anni Cinquanta di stoffa se ne produce al massimo 25 metri, e per farlo girare occorre un operaio che, chiavi alla mano, verifichi di continuo gli ingranaggi. Pensi che nella Fabbrica lenta c’è una figura unica, quella del maestro oliatore che gira per l’impianto con un solo compito: ascoltare il rumore che producono i telai. Quando nella musica degli ingranaggi c’è un suono diverso dal solito li ferma e provvede a oliarli».
I risultati di questa scelta parlano più di qualunque trattato di management: la Fabbrica lenta è andata a regime nel 2007, quando si avvertivano le prime avvisaglie della crisi ed è stata capace non solo di resistere  alla recessione ma addirittura di far compiere alla Bonotto un salto dimensionale importante. I 70 dipendenti di prima sono diventati 200 e il fatturato è salito a 32 milioni di euro, con un incremento significativo perfino quest’anno. I clienti sono le griffe mondiali della moda, Yves Saint Lauren, Gucci, Hermes, Vuitton e Ugo Boss. Ma il maggior volume degli ordinativi arriva dalla Cina.
E se la riscossa del nostro sistema industriale passasse da Molvena e non dalle asettiche stanze della Bocconi? Se il segreto fosse proprio nell’unicità di prodotti legati alla tradizione e alle tecnologie produttive che hanno fatto grande il made in Italy? La sfida è aperta. E merita di essere raccolta.

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