Bresaola dell’Uruguay e olio comunitario: il finto Made in Italy che fa male all’Italia

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La Bresaola fatta in Usa con carne dell’Uruguay

Il finto Made in Italy fa solo male. Nelle ultime settimane si sono verificati due fatti molto diversi ma che metto insieme perché hanno un denominatore comune molto forte e negativo: sono due casi di Made in Italy usurpato. Il primo: negli Stati Uniti alcuni funzionari della Coldiretti, hanno scoperto che alla Salumeria Rosi (per la precisione al 283 di Amsterdam Avenue, New York) si vende la Bresaola Parmacotto fatta però negli States con carne uruguaiana. Incidentalmente pure la salumeria Rosi è del gruppo Parmacotto.
Il secondo fatto: a Voghera, capoluogo dell’Oltrepò pavese il gruppo spagnolo Deoleo ha deciso di chiudere lo stabilimento dove si produce l’Olio Carapelli, finito in pancia agli iberici assieme ad altri brand storici dell’industrria oleicola italiana, Sasso Bertolli. L’azienda ha motivato la decisione con la necessità di tagliare i costi. I dipendenti della ex Minerva Oli verrebbero spostati nell’impianto di Inveruno, nel Milanese.
Il filo rosso che lega i due avvenimenti è preciso: a New York come a Voghera si tratta di prodotti che di italiano conservano soltanto il nome. Il Carapelli  è ottenuto con miscele di «oli comunitari», come recita chiaramente l’etichetta (si veda il post che ho pubblicato il 25 gennaio scorso, uno dei primi di Etichettopoli). Dunque di Made in Italy, quello vero, ce n’è ben poco dentro quelle bottiglie. Le si può produrre tali e quali a Voghera come a Madrid o a Casablanca. Il legame fra il prodotto (l’extravergine) e il territorio, letteralmente non esiste. L’olio Carapelli, ha una carta d’identità quanto mai vaga. Per quel che è dato sapere potrebbe arrivare da uno qualunque dei 27 Paesi della Ue (ve li immaginate gli uliveti in Lettonia?) o anche da più lontano, visto che in molti Paesi dell’Unione non cì’è alcun obbligo di dichiarare l’origine. Dispiace per i 73 lavoratori dell’impianto vogherese di Via Amendola (un terzo sono donne) che se vorranno conservare il loro posto dovranno sciropparsi un lungo viaggio da pendolari o trasferirsi a Inveruno.

Il Culatello americano

Anche nella confezione di Bresaola Parmacotto intercettata nella Grande Mela (si veda la foto) di italiano non c’è nulla. Come nel Culatello marcato «Salumeria Biellese» venduto nell’omonimo negozio, sito in questo caso nell’Ottava strada, a due passi dal Medison Square Garden. Nell’affaire Parmacotto, però, c’è un dettaglio che rende tutta la vicenda difficilmente sopportabile: nel capitale della società di Parma è entrata con un investimento di circa 11 milioni di euro (pari al 16%), la Simest società a controllo pubblico (il 76% è in pancia al Ministero dello Sviluppo economico) che si occupa di finanziare lo sviluppo all’estero delle imprese italiane. E proprio questo ha (giustamente) fatto gridare allo scandalo: ma come, si mettono i soldi pubblici per aiutare un’impresa a produrre all’estero, con materie prime straniere, finti prodotti italiani?
Dopo la prima fiammata di polemiche fra Coldiretti, che ha denunciato l’operazione, Parmacotto e Assica (la Confindustria delle carni), è arrivata pure un’interrogazione parlamentare rivolta da Sebastiano Fogliato (Lega Nord) al ministro dello Sviluppo Paolo Romani, maggiore azionista della Simest.
Personalmente non mi meraviglio dell’operazione «Bresaola Made in America». Mesi fa, alla presentazione di Cibus Tour, un funzionario dell’Assica aveva illustrato – pubblicamente – la visione della grande industria alimentare: non è importante da dove proviene la materia prima. L’importante è che sia italiana la ricetta e le tecnologie di produzione. Proprio come accade con i finti salumi italiani della Parmacotto. Ma se queste sono le regole del gioco, non stiamo a prenderci in giro: aboliamo in blocco tutte le Dop e delocalizziamo. Dove? Un’idea ce l’avrei; in Cina la manodopera costa due soldi, la carne ancora meno.

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