Cara senatrice Mongiello, l’etichetta trasparente l’ha bocciata la Commissione Ue

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Colomba Mongiello, senatrice Pd

Qualcuno spieghi alla senatrice Colomba Mongiello, appena rieletta per il Pd in Puglia, che la legge sull’etichetta d’origine c’è già. È stata approvata all’inizio del 2011 dal Parlamento italiano con una maggioranza bulgara. Votarono sì Pd e Pdl assieme e a Palazzo Chigi c’era ancora Silvietto Berlusconi. Soltanto che non è mai entrata in vigore perché ancor prima di essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale  la Commissione europea è intervenuta per bloccarla. Ricordo bene la lettera scritta dai commissari all’Agricoltura Dacian Ciolos e alla Salute John Dalli (poi silurato) con cui Bruxelles ci intimava l’altolà. Minacciando addirittura di aprire una procedura d’infrazione. Una storiaccia, che ho ricostruito con uno dei primi post di Etichettopoli.com (ecco il link).
Inutile, casa senatrice Mongiello, scandalizzarsi per l’assenza di norme stringenti che obblighino i produttori a dichiarare in etichetta l’origine delle materie prime. Il provvedimento che introduceva questo vincolo c’è. Non i decreti attuativi: i tavoli previsti dalla legge filiera per filiera si sono aperti ma chiusi subito. Dopo l’intervento a piedi uniti della Commissione europea. «Lo scandalo della carne equina non sarebbe esploso se il Parlamento avesse approvato per intero la legge sull’etichettatura, bloccata per due anni dal ministero delle Politiche Agricole», ha dichiarato a Daunianews.it la Mongiello. Ragionamento che contiene una imprecisione inaccettabile. I ministri che si sono succeduti al dicastero di  Via XX Settembre dopo l’approvazione della legge sulla tracciabilità – vale a dire Giancarlo Galan, Francesco Saverio Romano e Mario Catania, hanno forse altre responsabilità ma non quella di aver boicottato la legge sulle etichette «parlanti». Che senso ha, lo domando alla senatrice Mongiello, fingere di ignorare che il provvedimento è stato fermato sotto la minaccia di Bruxelles di aprire una procedura d’infrazione?
Un atteggiamento, quello dell’Eurogoverno, che risponde a una logica precisa: impedire non solo di qualificare un prodotto come 100% made in Italy. Ma anche di rendere trasparente l’origine dei singoli ingredienti. Un orientamento dettato dai Paesi nordeuropei, guidati dal blocco Germania, Olanda e Svezia. La realtà è questa. E dunque ripeto la domanda: perché fingere di ignorarla?

P.S. Pure l’etichettatura «100% made in Italy» è vietata. Sempre secondo i soloni di Bruxelles violerebbe addirittura il trattato istitutivo dell’allora Cee e l’articolo 24 del Codice doganale comunitario (versione emendata nel 1992). Norma, quest’ultima, richiamata proprio di recente per la presentazione del regolamento comunitario sull’etichetta del «made in…» obbligatorio. Una bufala che addirittura rischia di dare la patente di italianità a prodotti importati da ogni parte del mondo. Basta che abbiano subito da noi l’ultima lavorazione. Come ho documentato nel post pubblicato il 13 febbraio 2013.

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