Caro prof. Monti, per difendere il made in Italy bisogna poterlo riconoscere

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Anche Mario Monti si occupa di made in Italy. Quello vero. Intervenendo a Rubbiano, provincia di Parma, all’inaugurazione di un nuovo stabilimento di produzione della Barilla, il premier ha ammesso che «l’agroalimentare è un punto di forza del nostro Paese e ha un posizionamento solido, molto solido, malgrado prodotti che sono italian sounding (il cui nome, cioè, suona italiano, ndr), ma che noi sappiamo non essere italian tasting». Forma a parte – italian tasting, nell’accezione comune si traduce con «degustazione italiana» – bisognerebbe far presente al presidente del Consiglio che l’industria del falso, del tarocco, prospera perché non è obbligatorio scrivere  in etichetta la provenienza delle materie prime utilizzate nella produzione. Se lo fosse si scoprirebbe che oltre ai «falsi» prodotti made in Italy ce ne sono in grande quantità pure di «finti». Fatti cioè con la ricetta e le tecnologie italiane da imprese di casa nostra. Ma con ingredienti che arrivano dai quattro angoli del pianeta.

Il problema, caro Professore, sta proprio qui: anche volendo, è maledettamente difficile per un consumatore capire cosa sta mettendo nel carrello della spesa. Semplicemente perché nella stragrande maggioranza dei casi le etichette sono reticenti. Dicono tanto per non dire nulla sull’origine. 
Morale: non prendiamoci in giro. Non serve fare l’ennesima legge sul made in Italy. Ce ne sono già in abbondanza approvate di recente dal Parlamento. Basta applicarle. Mi correggo: basta volerle applicare.
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