Che fine ha tatto l’etichetta obbligatoria?

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Da tempo mi chiedevo che fine avessero fatto i decreti previsti dalla legge sull’etichettatura obbligatoria approvata all’inizio dello scorso anno. La norma prevedeva infatti che il ministero delle Politiche agricole e quello dello Sviluppo convocassero dei tavoli per ciascuna filiera e, sentite le organizzazioni dei produttori (agricoli e industria), stabilissero cosa andava etichettato e come. Tutto questo non è mai accaduto. dapprima Galan e poi Romano si sono ben guardati dal convocare alcun tavolo. Ora toccherebbe ai nuovi ministri Catania e Passera. Nel frattempo però è venuto meno il governo che ha voluto la legge sull’etichettatura obbligatoria.
A confermare che sulla tracciabilità dei cibi che portiamo in tavola non sta accadendo nulla è il senatore Paolo Scarpa Bonazza Buora, presidente della Commissione Agricoltura del Senato: «Ricordo a me stesso 
ma soprattutto ai ministri delle Politiche Agricole e dello Sviluppo Economico», ha detto in settimana, «che gli agricoltori e i consumatori italiani stanno aspettando da un anno i decreti attuativi della legge per l’etichettatura dei prodotti agroalimentari. La legge, voluta dal Pdl e votata unanimemente al Senato e alla Camera, prevede che i due ministri di concerto emanino i decreti applicativi filiera per filiera». 

In verità il cammino dei decreti attuativi parve subito in salita dopo il perentorio altolà lanciato dai commissari europei Dally (Salute) e Ciolos (Agricoltura): pensateci bene, cari italiani, tuonarono da Bruxelles, perché noi siamo pronti ad aprire una procedura d’infrazione.  
«Qualcuno giudicò questa legge una fuga in avanti», ammette in proposito Scarpa Bonazza, «qualcun altro paventa l’apertura di procedure d’infrazione da parte Ue se l’Italia l’applicasse: ma è una legge italiana, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e non credo proprio che atteggiamenti timorosi verso eventuali strali comunitari ci possano impedire di difendere con la massima decisione l’interesse dell’Italia, che è produttrice di beni agricoli di assoluta qualità e l’interesse dei consumatori italiani che hanno il sacrosanto diritto di poter liberamente scegliere se comprare italiano, vero made in Italy, oppure pallide imitazioni».
Ma il problema – e Scarpa lo sa benissimo – è proprio questo: non bisogna rendere riconoscibili cibi e bevande in base alla loro origine, altrimenti chi comprerebbe più quelli imbottiti di materie prime di pessima qualità che arrivano, per esempio, dal Nordafrica o dall’Asia? E’ per questo che l’industria alimentare europea (e in parte purtroppo anche quella italiana) ha sempre boicottato la tracciabilità. Con l’etichetta trasparente si svelerebbe il grande inganno.
Ora si tratta di capire se da parte del governo dei Professori c’è la volontà di rimettere in moto il meccanismo dell’etichettatura obbligatoria per il made in Italy. Personalmente temo di no: ve lo vede Monti che si scontra con la Commissione europea sull’origine di pasta e olio?
Eppure è questa l’unica strada per ridare valore ai prodotti della nostra terra. Mentre è in via di disarmo il regime di aiuti comunitari e sui nostri coltivatori si è abbattuto un uragano di tasse (sottoforma di Imu sui fabbricati) la tracciabilità potrebbe assicurare al vero made in Italy un differenziale di prezzo che renda ancora conveniente produrlo.
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