Chiedi l’etichetta trasparente? Allora sei un disinformatore, parola dell’Assica

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Milano, una mattinata d’inizio primavera. Il sole fiacco della pianura fatica a scaldarti. Ma forse è meglio così: in poche settimane la città rischia di trasformarsi nella fabbrica di afa e di zanzare che entra a pieno regime nei caldi mesi estivi. Decido di fare quattro passi, da piazza Oberdan alla fine di via San Gregorio: all’Osteria del Treno, nell’ex teatro della Società operaia, c’è la conferenza stampa di presentazione di Cibus Tour. Si parla dell’edizione consumer del fortunato salone dell’alimentazione e delle tecnologie per il “food”. Non è la prima volta che Marco Fanini, un noto professionista che ne cura l’ufficio stampa, suona il corno dell’adunata ai giornalisti per la nuova manifestazione. Ieri però la sala era piena. Cibus Tour inizia fra due settimane, il 15 d’aprile. Dunque tutti presenti, quotidiani, periodici e testate specializzate.
Alla presentazione partecipano fra gli altri l’ad della Fiera di Parma, il vulcanico e informalissimo Antonio Cellie, Annalisa Sassi in rappresentanza di Federalimentare (di cui è presidente dei giovani) e Franco Finato, direttore generale dell’Assica (industria delle carni), 2mila aziende associate, 32mila addetti e 7,6 miliardi di fatturato. Al tavolo dei relatori c’à anche Roberto Burdese, presidente di Slow Food, la corazzata del mangiar bene e naturale.
Inevitabilmente il discorso scivola sulla questione delle questioni: la tracciabilità, l’etichetta d’origine, il vero Made in Italy a tavola. Non resisto e faccio una domandina semplice semplice: dove cominciano la filiere? Dal campo e dalla stalla oppure dalla fabbrica dove le materie prime vengono lavorate? La questione non è secondaria: se ci fosse l’obbligo di dichiarare in etichetta la vera origine chi acquisterebbe una vaschetta di affettato (a scanso di equivoci: non parlo del Parma o del San Daniele Dop) Made in Germany? O un sugo fatto con la conserva cinese? O ancora, una bottiglia di extravergine ottenuto dalla frangituira di olive marocchine?
Apprezzabili le risposte di Cellie e di Paolo Carnemolla, presidente della Prober (produttori biologici). Secondo Franco Finato, dell’Assica, invece «l’equivalenza origine uguale sicurezza è un problerma di disinformazione», perché «sono le tecnologie a garantire qualità e sicurezza agli alimenti». In pratica non è detto che un prodotto ottenuto da materie prime agricole tutte italiane sia più sicuro e più salubre di uno analogo importato. Sarà. Faccio fatica a credere che al sistema di controlli in vigore in Italia sia preferibile quello di altri Paesi. Ricordate lo scandalo dei maiali e delle uova alla diossina che uscivano da allevamenti tedeschi in cui si usavano mangimi contaminati? Era l’inizio di gennaio e l’allarme è scattato in tutta Europa.
Mi viene comunque un sospetto: vuoi vedere che a “disinformare” sul made in Italy in tavola sono proprio i giornalisti? Quelli che insistono sulle etichette trasparenti, sulla tracciabilità, le filiere certificate… Allora ci sono dentro anch’io. Oibò, qualcuno me lo dica. Ma non me ne vergogno. Né mi pento.
Ho pensato di chiedere ad Antonio Finato cosa intendesse, senza fortuna: il dg dell’Assica ha lasciato la conferenza stampa in gran fretta. Ma lo farò: voglio davvero capire se mi sono guadagnato la medaglia di disinformatore attribuita dall’Assica. La porterei con orgoglio.
Resta l’amarezza: a informare male non è chi nasconde la vera origine dei cibi. Ma chi la chiede a gran voce. Ho il sospetto che ci sia qualcosa di sbagliato in tutto ciò.

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