Dop e Igp a gonfie vele. Ma perché non hanno il coraggio di dichiararsi italiane?

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Con 6 miliardi di fatturato fra Dop (Denominazione d’origine protetta) e Igp (Indicazione geografica protetta) i prodotti made in Italy rappresentano il 38% dell’intero valore delle produzioni alimentari certificate europee. La Francia arriva si e no alla metà. «Il patrimonio delle indicazioni geografiche italiane, tutelato dai regimi di qualità Ue, rafforza la propria vocazione di traino per l’intero settore agroalimentare», ha dichiarato all’Ansa Stefano Berni, vicepresidente dell’Associazione italiana consorzi indicazioni geografiche e direttore generale del consorzio del Grana Padano,  ma servirebbe, ha aggiunto, una adeguata considerazione, non sempre dimostrata dalle istituzioni, rispetto alle istanze avanzate nella definizione di politiche agricole ed economiche comunitarie».
Berni ha sicuramente ragione. Peccato che nella stragrande maggioranza dei casi i prodotti Dop e Igp non abbiano il coraggio di definirsi made in Italy sull’etichetta. È il caso della quasi totalità dei salumi e di moltissimi formaggi. Il motivo mi è stato spiegato da un funzionario di uno dei consorzi di tutela: se i prodotti Dop fossero immediatamente distinguibili come italiani a differenza dei «cloni» che non lo sono, questi ultimi non si vederebbero più se non a prezzi stracciato. E siccome i produttori sono molto spesso i medesimi, non hanno convenienza a rimarcare la differenza fra «veri» e «finti» prodotti italiani.
La presenza del bollino del consorzio non racconta al consumatore tutto quel che potrebbe dirgli un etichetta 100% made in Italy. Come ho verificato sul campo meno di 3 italiani su 10 sanno bene cosa sia un consorzio di tutela e men che meno cosa significhi il disciplinare di produzione.
Dunque, di fatto, perfino il vero made in Italy non è distinguibile dal finto e dal falso. Se vogliano rendere trasparente ciò che portiamo a tavola cominciamo almeno da Dop e Igp.

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