Un lettore di Etichettopoli.com ha lasciato un commento al post più letto di tutti: Etichette reticenti, l’olio extravergine di oliva, (pubblicato il 25 gennaio 2011) e nel quale, dopo aver censito otto marche di oli che si dichiaravano «comunitari», mi domandavo come fosse possibile celarne l’origine dietro a una dichiarazione così vaga.
Scrive il lettore:
La risposta è semplice: il D.M. cui si fà riferimento era in palese contraddizione con un reg.europeo che imponeva: nel caso di miscele di oli di più paesi della comunità, una dicitura…miscela di oli di origine della Comunità europea O UN RIFERIMENTO ALLA COMUNITA’ EUROPEA. Dunque il termine “miscela” tanto caro a chi vuole glorificare qualsiasi olio italiano e assimilare ad un grasso di macchina tutti gli altri, può non essere utilizzato.
p.s. il DM è stato successivamente dichiarato non ammissibile dalla corte di giustizia europea in quanto in contrasto con la normativa comunitaria.
Oltre a rispondere al commento ho deciso di approfondirlo in un post, questo, per chiarire i termini reali della questione.
- Grazie alla ragnatela di disposizioni introdotte dall’Unione europea è molto difficile capire da dove provenga la materia prima impiegata per confezionale gli alimenti di cui ci cibiamo ogni giorno. E questo vale per l’olio come per i sughi di pomodoro, i formaggi, il latte a lunga conservazione e altre centinaia di referenze presenti sugli scaffali dei supermercati di tutta Italia. In questo modo, da consumatore, ritengo sia violato il mio diritto di sapere quel che sto mettendo in tavola.
- Per ogni bottiglia di finto extravergine italiano (tale è soltanto in virtù della marca e della confezione) se ne vende una in meno di vero olio made in Italy. Se dovesse accadere lo stesso per tutti i prodotti alimentari, la nostra agricoltura sparirebbe e almeno due milioni di famiglie la cui vita è legata ai campi rimarrebbero senza fonte di sostentamento. La tracciabilità e la trasparenza delle etichette sono indispensabili per assicurare la sostenibilità sociale dell’intera filiera agricola.
E chiudo con alcune domande: quanti consumatori acquisterebbero il finto extravergine italiano se la sua origine comunitaria fosse ben visibile sull’etichetta nel fronte della bottiglia e non celata, a caratteri minuscoli, nella parte posteriore? E perché non fare un test? Perché non chiedere a chi si appresta ad acquistare l’extravergine al supermercato se è consapevole di quanto sta per mettere nel carrello?