Ecco quale sarà il finale di partita a Cibus Tour sull’etichetta trasparente

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Mancano due giorni all’apertura di Cibus Tour, la versione dedicata al grande pubblico della storica fiera alimentare di Parma. “Un viaggio nei sapori del territorio, nella salute e nel saper fare dell’alimentare Made in Italy”: così recita lo slogan della manifestazione. Per la prima volta i cancelli del quartiere fieristico di Baganzola, a due passi da una della capitali della food valley italiana, si apriranno per accogliere i consumatori e non soltanto gli operatori del settore come accade da sempre per il Cibus tradizionale.
Di nuovo, a sentire gli organizzatori, c’è tutto. In particolare la presenza di Slow Food, il custode del mangiar sano e naturale, assieme alla grande industria di trasformazione. Sarà una sfida: coniugare la logica della produzione standardizzata su larga scala, con quella che fa del piacere a tavola una conquista per tutti. Un po’ come far convivere il diavolo e l’acqua santa.
Nessuno lo dice, né si trova traccia sui documenti ufficiali della manifestazione, ma il vero protagonista (negato) della fiera sarà l’etichetta. La tracciabilità, la trasparenza della filiera, l’origine degli alimenti e delle materie prime utilizzate sono il punto di partenza per costruire un rapporto corretto fra produttori e consumatori. E infatti alle due conferenze stampa di presentazione di Cibus Tour svoltesi a Milano si è parlato soprattutto di questi temi. Immagino che accadrà anche a Parma nei tre giorni del salone. Ma temo di conoscere già il finale di partita.
Sulla tracciabilità la Federalimentare e in particolare l’Assica che riunisce le industrie della carne, hanno una posizione precisa: inserire l’origine in etichetta ha un costo che può arrivare al 15% di quello finale e comunque «l’equivalenza origine uguale sicurezza è un problerma di disinformazione», perché «sono le tecnologie a garantire qualità e sicurezza agli alimenti», come ha spiegato il direttore generale dell’Assica Franco Finato non più tardi di due settimane fa.
I “visionari” del Made in Italy sbagliano a farne una guerra di religione, anche perché, dicono gli industriali, se si volesse rendere veramente trasparente tutta la filiera, per esempio quella delle carni, bisognerebbe risalire fino al campo dove vengono coltivati i cereali con sui si alimentano bovini e suini. Chi garantisce che non si tratti di vegetali Ogm? Dunque fidatevi della qualità che possiamo garantire noi, con le nostre tecnologie. E non rompete tanto le scatole, cari crociati del mangiare-tutto-italiano, perché fra l’altro rischiate di mettere i bastoni fra le ruote all’export alimentare che sta riprendendosi bene. Amen.
E’ una predica che mi sono sentito fare più volte. Le uova e le bistecche di maiale alla diossina in arrivo dalla Germania? Il problema non esiste. Il concentrato di pomodoro cinese che viene direttamente dai lager dove sono ai lavori forzati decine di migliaia di perseguitati politici? Portate le prove. L’olio marocchino deodorato e venduto come comunitario? Aspettiamo di vedere come finiscono le indagini….
L’unica occasione in cui si parlerà di tracciabilità è un workshop organizzato domenica 17 aprile (ore 16) da Confagricoltura col seguente titolo: “Le tante facce dell’etichetta, la riconoscibilità non è sempre garanzia di qualità”. Che coincidenza!
Il finale di partita sarà proprio questo: visto che è impossibile (lo dice l’industria) tracciare tutta la filiera e che indicarla in etichetta costa né si possono cancellare le frodi, lasciamo stare le cose come sono. E se Slow Food ha accettato di confrontarsi con noi (sono sempre gli industriali a dirlo) al punto da condividere la scena alla prima edizione di Cibus Tour, vuol dire che il nostro modello è quello giusto.
Dunque teniamoci l’etichetta reticente.
Un’ultima nota. Nel settore dell’olio si inizia a parlare di «guerra ideologica» per contrastare quanti chiedono di esplicitare l’origine delle olive utilizzate per produrlo. Vuoi vedere che alla fine scopro di essere il cattivo?

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