Etichetta d’origine: cari formaggiai, non potete nasconderci da dove arriva il latte che usate

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Da consumatore ho il diritto di conoscere l’origine delle materie prime alimentari. E mi incazzo quando qualcuno mi tratta come un poppante, a cui raccontare solo quel che fa comodo.

Quando ho letto il comunicato che Assolatte, la Confindustria di settore, ha diffuso sull’etichettatura d’origine obbligatoria per latte e derivati, vi confesso che non credevo ai miei occhi. «La norma che entra in vigore oggi presenta almeno 7 gravi criticità», scrive nella nota l’industria di trasformazione, riferendosi al decreto approvato dal governo lo scorso mese di dicembre, ma divenuto operativo il 19 aprile 2017. Rispondo una per una alle obiezioni (in blu) che ritengo non condivisibili e pure un po’ offensive nei confronti dei consumatori.

Il soggetto è sempre il decreto

È fuorviante: l’indicazione può spingere i consumatori a diffidare dei prodotti lattiero-caseari realizzati con latte non italiano. Ma non c’è ragione per preoccuparsi. Se sulle confezioni c’è scritto “origine Ue” i consumatori possono stare tranquilli, perché in tutti i Paesi dell’Unione Europea gli standard di qualità e di sicurezza sono garantiti da un sistema di norme e controlli allineato e molto severo, e perché i prodotti rispondono ai medesimi criteri. E se sulle confezioni c’è scritto “origine extra UE” si intendono i nostri vicini di casa della Svizzera e non certo Paesi esotici, come la Cina, da cui non arriva un litro di latte. Inoltre, tutto il latte lavorato subisce i medesimi controlli: tutte le cisterne – italiane, tedesche o francesi, non importa – se entrano nei nostri stabilimenti vengono controllate, una a una, e al minimo sospetto il latte non viene respinto e non entra in produzione.

La scelta di un consumatore di bere il latte italiano o mangiare i formaggi davvero made in Italy, magari è dettata dalla volontà di valorizzare le produzioni nazionali. Aiutando i nostri allevatori. D’altronde più lontana è la fonte di approvvigionamento delle materie prime e più ho diritto di diffidare dei controlli. Lasciatemi, cari formaggiai, almeno il beneficio del dubbio. E poi, se l’industria di trasformazione sceglie di scrivere in etichetta «origine Paesi extra Ue» anziché Svizzera, come sarebbe più semplice e scontato se la materia prima arrivasse tutta dalla Confederazione Elvetica, non può prendersela con me se preferisco il latte 100% italiano. Occhio anche alla costruzione dell’ultima frase: c’è un non di troppo. «Al minimo sospetto il latte non viene respinto e non entra in produzione». Se «non viene respinto», dove va?

Sminuisce il ruolo delle aziende di trasformazione: con tutto il rispetto che meritano i nostri fornitori, a produrre i tesori della tradizione casearia italiana e portarli sulle tavole di milioni di consumatori italiani e in giro per il mondo sono le imprese di trasformazione, quelle che sui loro prodotti “ci mettono la faccia”, ossia il loro nome e marchio.

Pessima uscita, in cui si percepisce l’acredine nei confronti degli allevatori per aver chiesto e ottenuto l’etichetta d’origine obbligatoria. Giusto parlare di «tesori della tradizione casearia italiana» che però sono quasi tutti Dop o Igp. Liberi di «metterci la faccia» sui formaggi senz’anima né gusto che si trovano a centinaia sui banconi dei supermercati e che sanno di latte come io posso odorare di santità. Ma non nascondetevi dietro le tradizioni alimentari italiane, cari formaggiai. Sono un’altra cosa.

 È miope: fissare l’attenzione solo sulla provenienza del latte fa perdere di vista il fatto che non è solo l’origine che fa la qualità. Per ottenere una mozzarella, uno yogurt, un burro, una panna, un pecorino o un formaggio stagionato all’altezza della fama del vero “made in Italy” è altrettanto importante saper lavorare il latte con maestria, passione e know-how. E in quest’arte le aziende italiane sono riconosciute eccellenti dai consumatori di ogni parte del mondo: solo col latte migliore si fanno i formaggi migliori.

Verissimo. Non è solo l’origine della materia prima che fa la qualità. Ma allora per qual motivo i nostri grandi formaggi, Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Gorgonzola, Taleggio, sono vincolati dal disciplinare a utilizzare soltanto il latte di una determinata zona geografica d’Italia? Se fosse come dite voi, se bastasse la ricetta a fare un  formaggio d’autore, cari industriali, allora potremmo abolire i disciplinari. E comunque lasciate giudicare ai consumatori su cosa «fissare» l’attenzione. Per fortuna non siamo in Cina né in Corea del nord. E i consumatori possono decidere in autonomia a cosa guardare. A me la provenienza del latte interessa. Eccome. E non accetto che qualcuno mi impedisca di verificarla.

È poco chiara: il decreto che ha introdotto la nuova etichettatura è di difficile interpretazione, tanto da aver richiesto numerose circolari interpretative che non sono riuscite a chiarirne alcune disposizioni. Un susseguirsi di interpretazioni e di indicazioni, spesso in contrasto tra di loro che ha reso molto complessa e complicata l’adozione della nuova normativa da parte delle aziende.

Se il decreto è poco chiaro è perché deve rispettare i vincoli sull’acquisizione d’origine imposti dall’Europa (articolo 60 del Codice doganale della Ue). E il pasticcio delle circolari interpretative (qui il post dove lo ricostruisco) non è certo dovuto né ai consumatori né tantomeno agli allevatori. Il rimpallo tra i ministeri dello Sviluppo e delle Politiche agricole, si devono a quella manina che ha inserito nella prima circolare la possibilità di etichettare come Made in Italy anche il latte importato. Eventualità che avrebbe fatto un gran comodo all’industria di trasformazione. Per risolvere questa «criticità», cari formaggiai, vi consiglio di guardarvi allo specchio. È a voi stessi che dovete rivolgervi.

Favorisce gli sprechi: il decreto che introduce la nuova etichettatura è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 19 gennaio 2017 ed entrerà in vigore dal 19 aprile 2017. Tre mesi sono un lasso di tempo troppo breve per permettere alle imprese di smaltire le confezioni in magazzino. E così le aziende sono state costrette a mandarle in discarica: uno spreco davvero inaccettabile.

Occhio ai tempi. Il decreto è stato sì pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 19 gennaio 2017, ma era stato approvato il 9 dicembre 2016 e la bozza, è stata inviata a Bruxelles addirittura a maggio dello scorso anno. Quasi un anno fa. E se ne parlava per lo meno dall’inizio dello scorso anno. Possibile che le industrie non si siano accorte di nulla e abbiano stampato milioni di etichette, mentre la normativa stava cambiando? Bastava leggere i giornali per capirlo. Per la serie: ditene un’altra!

È iniqua: l’obbligo dell’indicazione di origine riguarda solo le aziende italiane, mentre chi produce latte, yogurt, burro e formaggi all’estero e li porta in Italia continuerà a farlo senza applicare le nuove regole. E senza aver affrontato gli oneri e i costi necessari per adeguarsi alla nuova normativa italiana.

In effetti basta partire dal presupposto che ove l’origine non sia indicata si tratti di un prodotto non italiano. D’altronde, non prendetevela. I formaggiai stranieri si limitano a fare quanto avete fatto voi fino al 18 aprile 2017: nascondere la provenienza della materia prima.

Contraddice i principi che sono alla base dell’Unione Europea, di cui sono stati appena festeggiati i 60 anni di vita: si può parlare di mercato comune quando ogni paese si fa in casa le proprie regole? Pensiamo al recente dibattito sulle etichette nutrizionali a semaforo, che penalizzano tante eccellenze gastronomiche del “made in Italy”: una vicenda che ha scaldato l’opinione pubblica italiana e ha fomentato pesanti accuse di protezionismo nei confronti del governo britannico. Ma l’Italia, con i numerosi recenti interventi normativi per introdurre l’etichetta d’origine su numerosi prodotti alimentari, non sta forse facendo anch’essa del protezionismo?

In questo caso, lo devo ammettere, il mio giudizio è influenzato dalle mie convinzioni. Sono quel che si dice un sovranista e il solo sentir parlare di Unione europea mi fa venire i fumi. Definire l’etichetta d’origine un atto protezionistico, però, mi sembra francamente inaccettabile. Segnalo ai formaggiai, fra l’altro, che la loro posizione coincide con quella di Stati Uniti e Canada che hanno denunciato al Comitato barriere tecniche dell’Organizzazione mondiale del commercio, i provvedimenti adottati da Francia e Italia proprio sull’etichettatura d’origine. Ritenendoli un «ostacolo al libero commercio». A ricostruire l’intera vicenda è stato l’avvocato Dario Dongo, fra i massimi esperti di diritto alimentare sul sito Great Italian Food Trade (qui l’articolo). Fossi nell’Assolatte ci penserei bene prima di scendere in campo al fianco dei grandi falsificatori americani che imitano tutti i formaggi della nostra tradizione, ritenendo le nostre denominazioni d’origine dei semplici «nomi comuni alimentari». Capisco che i soldi non abbiano patria né conoscano frontiere, ma questo è davvero troppo.

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