Federalimentare: «Made in Italy sì, ma senza l’indicazione d’origine»

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La scorsa settimana si è tenuto a Savelletri di Fasano, in provincia di Brindisi, l’ottavo forum dei giovani imprenditori di Federalimentare. L’evento aveva un titolo accattivante: «E’ ora di alimentare italiano». Dunque la Federalimentare si è convertita al Made in Italy? Strano… La Confindustria del cibo ha sempre difeso il diritto di definire italiano quel che è fatto con una ricetta tradizionale del nostro Paese ma con materie prime comperate in ogni angolo del mondo. Di più: fra gli associati (l’Assica per esempio) c’è chi ritiene disinformazione allo stato puro l’equivalemza «prodotto italiano uguale prodotto di qualità».
Ebbene chi si aspettasse una conversione storica dell’industria alimentare alla tracciabilità delle filiere e alla trasparenza sull’origine dei prodotti è destinato a una sonora delusione. Ecco cos’ha detto a Brindisi il presidente Filippo Ferrua Magliani: «Introdurre l’obbligo di indicare nelle etichette l’origine delle materie prime utilizzate nei prodotti (come da più parti si chiede) snatura il concetto stesso di Made in Italy alimentare; discrimina le imprese italiane rispetto ai loro concorrenti; non aggiunge nulla in fatto di sicurezza e qualità degli alimenti; fa lievitare i costi di produzione, con inevitabili riflessi negativi sull’economia del Paese e sul potere di acquisto dei consumatori».
Ecco dunque la verità: per l’industria alimentare la tracciabilità che consentirebbe ai consumatori di sapere con quali ingredienti è prodotto un certo alimento, «snatura il Made in Italy». E in effetti una verità profonda c’è in questa affermazione di Ferrua. La trasparenza sull’origine di ciò che portiamo a tavola snatura il concetto che la Federalimentare ha del Made in Italy. Che non deve essere per davvero italiano. Basta che sia fatto con una ricetta italiana e con tecnologie italiane.
Allora però non si vede perché non concedere la patente di italianità, per esempio, a un formaggio come il Gran Moravia (simile nella fattura e nelle caratteristiche organolettiche ai nostri grana, il Padano e il Reggiano). Lo produce nella Repubblica Ceca la famiglia Brazzale, storici casari vicentini…
Su come la corazzata dell’industria alimentare pensi di difendere il “diritto” di mantenere l’attuale opacità sull’origine dei prodotti, Ferrua è stato chiaro: «Va ricordato che in più occasioni, anche nelle competenti sedi istituzionali, Federalimentare, non muovendo da alcuna posizione pregiudiziale, aveva avvertito che una nuova disciplina sull’etichettatura dei prodotti alimentari non sarebbe mai potuta risultare in conflitto con la normativa comunitaria. Tanto più che il Consiglio Ue e il Parlamento europeo stanno adottando il Regolamento relativo alle informazioni per i consumatori».
E infatti vi posso confermare che l’associazione non ha esitato a sensibilizzare istituzioni fra le più diverse, a cominciare dal nostro governo, sulla propria visione del Made in Italy a tavola.
A proposito del Regolamento europeo, fra l’altro, Ferrua si è dimenticato di dire che fra Parlamento e Consiglio Ue c’è stato un lungo braccio di ferro: l’assise di Strasburgo, infatti, aveva votato a larghissima maggioranza un testo che introduceva di fatto l’obbligo di tracciabilità per quasi tutti i prodotti destinati all’alimentazione. Testo che il Consiglio – composto dai capi di governo e dai ministri agricoli dei Ventisette – ha poi bocciato ripetutamente. Sensibile com’è alle sirene delle grandi lobby industriali europee.
Ma non basta. Federalimentare è contraria pure ai prodotti a chilometri zero. Dice in proposito Ferrua: «La cosiddetta filiera corta, in ordine alla quale hanno da tempo purtroppo legiferato e legiferano alcune Regioni è questione che presenta non pochi punti di evidenziata criticità».
Mi fermo qui. Aggiungo solo una considerazione: oltre al sacrosanto diritto dei consumatori di sapere da dove arrivi, per esempio, il grano impiegato per produrre la pasta che stanno mangiando, il «fatto all’italiana», il finto Made in Itay riduce pesantemente la capacità della nostra agricoltura di generare ricchezza diffusa attraverso il lavoro. Per ogni tonnellata di materia prima acquistata all’estero c’è qualche agricoltore che contabilizza un meno nel proprio bilancio. E qualche lavoratore agricolo che deve fare altro, o stare a casa ad aspettare che la provvidenza gli offra una seconda opportunità. Magari in una fabbrica che ha chiuso da tempo.

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