Ferrua (Federalimentare): Il made in Italy? È una categoria mentale

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Alla fine Filippo Ferrua l’ha detto: «Il made in Italy è una categoria mentale». Ho incontrato il grande capo della Federalimentare venerdì 19 aprile alla conferenza stampa di presentazione degli eventi targati Cibus nel 2013. Il salone dell’alimentazione  – una joint venture paritetica fra Fiere di Parma e Federalimentare – è biennale. C’è stato l’anno scorso e la prossima edizione ci sarà nel 2014. Quest’anno si svolgono eventi di avvicinamento, come il Cibus Global Forum (16 e 17 maggio) organizzato sempre a Parma dalla Confindustria alimentare.Ma di questo avrò modo di darvi conto più avanti, nel corso della manifestazione. Ora mi preme invece raccontare il dibattito che è emerso quando una collega giornalista ha chiesto a Federalimentare una spiegazione sul made in Italy e sul mercato dei falsi. Quel che si definisce italian sounding e che vale 60 miliardi l’anno. Un fenomeno che sottrae valore  e ricchezza alla nostra agroindustria nazionale.
Ecco, così come le ho registrate sul telefonino, la sequenza di domande e risposte. Il testo è lungo, ben oltre gli standard del blog. Ma penso proprio che meriti leggerlo.

D: Il made in Italy è  davvero fatto in Italia?

FERRUA: «Ci sono prodotti e prodotti. Innanzitutto bisogna distinguere fra i prodotti Dop e Igp che sono legati al territorio italiano e che non potranno mai essere confezionati fuori dall’Italia. Diverso il discorso per tutta un’altra serie di prodotti che possono essere fatti all’estero: un fatto che semplifica il lavoro. Aziende medio-grandi che hanno creato stabilimenti in altri Paesi  e vi confezionano prodotti fatti con le stesse ricette, con le stesse materie prime [utilizzate in Italia, ndr]. E quando c’è questa formula credo lo si possa considerare un made in Italy indiretto. Perché è fatto anche dell’idea, della ricetta italiana… Il made in Italy, alla fine, è una categoria del pensiero».

Annalisa-Sassi
Annalisa Sassi

Ancora FERRUA«Ma il discorso è complesso e va affrontato prodotto per prodotto. Certo se parliamo di Parmesan, siamo sicuri che non è fatto da un’azienda italiana. D’altra parte spesso all’origine dell’italian sounding ci sono i nostri antenati  emigrati in altri Paesi dove si sono messi a fare le cose che sapevano fare in Italia. Anche se non hanno le nostre materie prime…. Col passare degli anni sono anche un po’ cambiate le formule, le ricette. Fra l’altro le etichette di questi prodotti hanno colorazioni e disegni che  richiamano l’Italia. Questo però è un fenomeno individuabile che va combattuto».

ANNALISA SASSI (presidente dei giovani di Federalimentare): «In effetti è un tema aperto, dibattuto pure fra di noi. Ce lo stiamo ponendo anche in questo periodo in cui i consumi in Italia sono fortemente calati. E noi dobbiamo essere capaci di portare sui mercati che li chiedono i nostri prodotti a costi sostenibili».

D. Ma questi prodotti possono continuare a chiamarsi made in Italy?

SASSI: «No, non sono fatti in Italia. Non è made in Italy».

D. Ma ad esempio negli Stati Uniti sono venduti nei negozi che fanno del made in Italy la loro ragion d’essere…

SASSI: «A volte bisogna anche pensare a creare dei margini. I marchi sono un valore… E tutti noi vorremmo che diventassero dei gradi marchi a livello internazionale:  questo rappresenterebbe una ricchezza per tutto il nostro sistema industriale. Certo, se riuscissimo a fare qui [in Italia] le produzioni sarebbe meglio»

D [BARBIERI]. A questo punto non capisco la differenza fra un prosciutto crudo  (non parliamo di Dop) fatto da un italiano nel Wisconsin piuttosto che un prosciutto crudo fatto sempre nel Wisconsin ma da un americano. Cosa cambia? Il brand che mettiamo sulla confezione? Se stabiliamo che qualunque prodotto italiano può essere fatto in ogni parte del mondo allora aboliamo il made in Italy…

FERRUA: Sull’etichetta del prosciutto crudo prodotto nel Wisconsin c’è il luogo di provenienza. Quindi… Come sa io produco la Nutella. A la faccio anche negli Stati Uniti, ma c’è scritto sull’etichetta. È la genialità italiana, l’immagine, la ricetta, la valorizzazione del prodotto che richiama l’Italia. Il made in Italy è un concetto che aiuta le esportazioni del Paese. L’Italia viene apprezzata nel mondo e questo apprezzamento viene chiamato made in Italy. Molte volte a prescindere dall’origine. Anche tutta la moda italiana viene creata e disegnata qui ma prodotta in giro per il mondo…

D. [BARBIERI]  E infatti il tessile italiano è morto…

FERRUA: «Nel settore alimentare nessuno è andato all’estero chiudendo le fabbriche in Italia. Chi lo ha fatto voleva  conquistare certi mercati».

Ecco, questa è la trascrizione fedele delle dichiarazioni che ho raccolto alla conferenza stampa di Cibus.  Un’ultimissima considerazione. Il fronte dell’industria non è compatto. Annalisa Sassi, fresca di nomina a consigliere di amministrazione di Cariparma Crédit Agricole, sembra molto meno sicura di Ferrua sul made in Italy fatto fuori dall’Italia. E infatti mi risulta che il fronte degli industriali del settore sia tutt’altro che compatto. Per ora mi limito a registrare queste prese di posizione che rappresentano un passaggio fondamentale per capire quale sia la politica della grande industria alimentare italiana.

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