Gli industriali tedeschi a Tajani: giù le mani dal made in Germany

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«Giù le mani dal made in Germany!». A Berlino infuria la polemica contro l’Unione europea, «colpevole» di mettere in pericolo l’etichetta d’origine dei prodotti tedeschi. A lanciare l’anatema su Bruxelles è Anton Börner, presidente dell’Associazione per il Commercio estero che riunisce le maggiori imprese esportatrici. In particolare, come spiega il quotidiano Die Welt, le imprese tedesche sono preoccupate per la proposta di regolamento  sul “made in…” obbligatorio, presentata a febbraio dal vicepresidente della Commissione Antonio Tajani e dal commissario alla Salute Tonio Borg. Proposta di cui mi sono occupato nel post del 13 febbraio di quest’anno. Definendola una bufala. Perdonatemi l’autocitazione ma penso di dover chiarire i termini della questione. L’articolo 7 del regolamento recita:

Ai fini della determinazione del Paese di origine (…) si applicano le regole di origine non preferenziali stabilite agli articoli da 23 a 25 del Regolamento del Consiglio n. 2913/92 che stabilisce un Codice doganale comunitario.

E proprio qui, avvertivo nel post di febbraio, sta la fregatura solenne. L’articolo 24 del Codice doganale offre una scappatoia che permette di etichettare come tedesco (o come italiano, è indifferente) un prodotto quasi finito che subisca un’ultima lavorazione nel Paese che se ne assume la paternità. Ecco cosa prevede l’art. 24:

Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.

Ne sanno qualcosa le imprese che si ostinano a realizzare da noi i capi d’abbigliamento made in Italy e che si debbono confrontare con una concorrenza sleale: giacche o cappotti importati da Cina e India a cui sono stati applicati i bottoni, trasformandoli così in prodotti italianissimi. Scarpe fatte arrivare dal Vietnam e “arricchite” di soletta sottopiede o lacci italiani e spacciate per made in Italy. Interi distretti del tessile e della calzatura sono scomparsi, messi fuori mercato da queste furbate.
Ebbene, a Berlino questo non basta. Evidentemente i furboni germanici vogliono etichettare come tedeschi prodotti realizzati interamente (ripeto: interamente) all’estero. A chiarire bene questa posizione è Eric Schweitzer, presidente delle Camere di commercio tedesche: «Il progetto della Commissione europea è destinato a minare la denominazione d’origine per i prodotti tedeschi, sostituendo fredde regole doganali alle caratteristiche di qualità».
Insomma, Berlino non accetta neppure il regolamento Tajani-Borg che ha delle falle così grosse da permettere perfino di riscrivere la geografia commerciale del mondo. E c’è da scommettere che in breve la levata di scudi contro i “cattivi” che mettono in dubbio la parola degli imprenditori tedeschi, si trasformerà in un gigantesco «nein» pronunciato dalla cancelliera Merkel all’Eurogoverno. Almeno, questa volta, visto che Berlino sta giocando a carte scoperte, pure i ciechi potranno capire chi fa il tifo per le etichette reticenti.
Ah, dimenticavo: la proposta di regolamento non si applica ai prodotti alimentari. I falsari della tavola possono sentirsi al sicuro. Comunque.

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