Griffe italiane false, così gli etichettifici ci impoveriscono

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Falso e finto made in Italy: lunedì scorso, 17 marzo, puntata memorabile di Presa Diretta (Rai Tre) dedicata agli abiti confezionati in Oriente  per le grandi griffe del made in Italy e rivenduti poi a prezzi molto alti, a fronte di costi di produzione che non arrivano ai 10 euro al capo. Ecco il link alla puntata. Da vedere sicuramente.
Noto con amarezza che sul Web i soliti lobbisti della grande industria, in questo caso tessile, si sono scagliati contro l’ondata di indignazione che ha percorso i social media. Secondo voi – questo dicono in sostanza –  i consumatori sono così tonti da farsi fregare regolarmente e acquistare per centinaia di euro i finti abiti italiani fatti in Cina, India, Bangladesh e Vietnam? Roba da ammannire agli stolti. Ergo (queste sono le conclusioni dei soliti benpensanti) sono tutte fregnacce.
In realtà l’inchiesta di Presa Diretta ha documentato minuziosamente la filiera che porta  da Dacca agli etichettifici italiani dove ci si limita ad attaccare il cartellino della griffe, dando così il passaporto italiano a una maglietta o un abito che di vero hanno purtroppo solo lo sfruttamento dei lavoratori pagati pochi euro al giorno per turni anche di dodici ore.
E se dovesse passare il regolamento sul «made in…» obbligatorio sponsorizzato dalla Commissione europea, questi falsi potrebbero fregiarsi anche del tricolore. Ammesso che già non lo facciano. Già, perché basta che qui da noi si svolga l’ultima lavorazione, ad esempio quella di cucire l’etichetta, e una t-shirt proveniente ad esempio da un suburbio di Nuova Delhi, si trasforma in una maglietta italianissima. Oltre al clamoroso imbroglio ai danni dei consumatori, la delocalizzazione del lavoro provoca la desertificazione produttiva che ha già colpito vaste zone d’Italia. E ci rende tutti un po’ più poveri.

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