I cibi italiani? Sono bastardi e pure scambisti, parola di guru

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Gli scandali alimentari? L’italian sounding? Le agromafie? Colpa di giornali e tv che creano il caso. E poi, a sentire i guru, i cibi italiani che finiscono sulle nostre tavole sono bastardi, figli di molte madri e parecchi padri…

Guai a parlare di vero made in Italy. Come minimo rimedi una bella medaglia da «solone di turno» o peggio una pergamena che ti bolla come «bigotto Doc». A difendere l’originalità e l’unicità del made in Italy si rischia di fare da puncing ball per i fautori del nuovo «verbo» alimentare mondialista. Cionondimeno non mi tiro indietro. Anzi mi sento chiamato in causa da alcune affermazioni che circolano sulla rete e sulla carta stampata con sempre maggiore frequenza sull’originalità dei cibi italiani. Andiamo con ordine.

Leggo sull’ultimo numero del mensile Il mondo del latte: «Siamo il Paese che produce i migliori cibi del mondo, eppure non c’è settimana che giornali, televisione o il solone di turno non mettano in discussione questo primato: parlando male dei prodotti in commercio e sputando sentenze sulla qualità di quel che entra nella borsa della spesa delle famiglie italiane. Cui prodest? A nessuno». A scrivere è Adriano Hribal, avvocato e direttore dell’organo ufficiale di Assolatte, che continua: «Siamo il Paese che ha un sistema di controlli tra i più efficaci al mondo. (…) Si controlla tanto e si controlla bene. Eppure sembra che l’Italia sia diventato il Paese degli scandali alimentari, delle agromafie, della contraffazione. Anche in questo caso la domanda è: cui prodest? A chi giova questo allarmismo continuo e sistematico? E la risposta è: a nessuno».

In realtà Hribal non è il primo a fare questo ragionamento, l’ho sentito ripetere più volte, ad esempio dai vertici di Assocarni, la consorella confindustriale cui aderiscono le imprese della carne e dei salumi. Proprio nel momento in cui il made in Italy corre col vento in poppa sui mercati mondiali, si tira in ballo il discorso della contraffazione e dell’origine? In realtà non sono i giornali o le televisioni (mi dispiace deludere Hribal!) a creare gli scandali. A scorrere il bilancio 2013 degli organismi preposti ai controlli alimentari c’è da farsi venire la pelle di cappone. Solo le Aziende sanitarie locali hanno scoperto lo scorso anno 52.400 irregolarità da parte di imprese alimentari, soprattutto nella ristorazione, seguite da quelle dei produttori che vendono al dettaglio. Circa 40mila i controlli effettuati dai Carabinieri dei Nas con 13.255 «non conformità», relative soprattutto ad alimenti in cattivo stato di conservazione ma anche a frodi in commercio. Infine il Corpo forestale dello Stato ha effettuato 21.800 ispezioni riscontrando 2.231 irregolarità su 2.917 prodotti, in particolare per contraffazione di olio extravergine di oliva, salumi e miele. Dici poco…

I giornalisti si interessano di contraffazione, frodi e in genere di falso made in Italy perché il fenomeno è di dimensioni tali da non poter essere ignorato. Quindi, caro Hribal, non è colpa dei media che cadono preda di «allarmismi continui e sistematici», ma delle migliaia di cialtroni che falsificano il made in Italy a tavola. Per non parlare dell’italian sounding, valore 60 miliardi di euro,  che infesta i mercati mondiali, danneggiando tutta l’industria alimentare tricolore. Vogliamo fare finta di niente in nome del profitto? Se questa è la visione di Assolatte, prego, faccia  pure. Per quel che mi riguarda (e una volta tanto penso di poter parlare anche per la categoria dei giornalisti) non smetterò mai di documentare trucchi, falsificazioni e furbizie.

Ma non è finita qui. A negare l’originalità e l’unicità della nostra civiltà alimentare, ci si mettono pure i guru come Alessandro Marzo Magno che in un’ampia intervista a Vanity Fair, fornisce una visione destinata a cancellare sul nascere le legittime rivendicazioni di quanti si battono per la riconoscibilità e la valorizzazione del vero made in Italy. Dice lo storico: «Pasta, pizza, polenta: cibo etnico. La pasta secca ce l’hanno data gli arabi, la pizza ce l’avevano già gli antichi greci, la polenta ci è arrivata dall’America. Il concetto di autentico nella gastronomia è assai relativo perché la cucina è bastarda per definizione, figlia di molte madri e svariati padri. La cucina è scambista, si esalta solo con la contaminazione, con il multiforme, migliora viaggiando e incontrando l’esotico. Tutta la storia della gastronomia italiana è lì a dimostrarcelo». La tesi è affascinante e, conoscendo il valore di Marzo Magno, sicuramente sarà anche documentatissima. Ma così si rischia di sacrificare quel po’ di vero made in Italy esistente sull’altare di un mondialismo già di suo fin troppo soffocante.

Lo slogan “Si polenta, no cous cous” quindi era una cretinata?, gli chiede la collega Margo Schachter nell’intervista su Vanity… Ed ecco la risposta: «L’idea che ci siano piatti che ci contraddistinguono come cultura è una stronzata, frutto di una ignoranza bestiale. La polenta di mais viene dall’America». Sarà, ma in questo modo si cancellano parecchi secoli (nel caso della polenta, per la precisione cinque) nel corso dei quali il mangiare italiano, la cucina, il modo di confezionare ingredienti pur comuni ad altre culture alimentari, hanno ricevuto una legittimazione antropologica prima che culturale. Polenta e cous cous sono diversi per il gusto, le ricette con cui vengono cucinati e pure per il contesto antropologico in cui sono diventati quel che oggi possiamo gustare. Portare indietro di secoli le lancette dell’orologio per dimostrare che a tavola non esiste alcuna differenza, è un’operazione per lo meno opinabile. Che può costar cara alle centinaia di migliaia di italiani occupati nelle filiere che portano dai campi (e dalle stalle) alle nostre tavole.

Ma c’è un tarlo che mi rode… Come facevano gli antichi greci ad avere la pizza (lo chiedo a Marzo Magno), se il pomodoro è arrivato in Europa soltanto nel 1540, al seguito dei conquistadores di Hernán Cortés? Senza il rosso dello xitomatl (così lo chiamavano gli aztechi) più che pizza quella sfornata nell’Ellade era una banale focaccia!

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