I prosciutti Dop e non-Dop mandano in tilt perfino le cassiere

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Ha  ragione la presidente dell’Assica Lisa Ferrarini quando lamenta che i prosciutti Dop non si vendono più. Ma la numero uno della Confindustria delle carni dimentica un dettaglio: sui banconi dei supermercati, per ogni confezione di prosciutto Dop ce n’è almeno una con un brand italiano che più italiano non si può, a prezzo inferiore, ma quasi sicuramente fatta a partire da cosce d’importazione. Dunque finto prosciutto italiano. Nulla di riprovevole in sé. I salumifici italiani sono liberi di acquistare la materia prima dove vogliono. Se però la rivendono come made in Italy finiscono per cannibalizzare  i prodotti Dop. Proprio come sta avvenendo. Di questo ho ampiamente parlato nel post del 10 dicembre (Prosciutti in crisi per autoconcorrenza sleale) che concludevo ripromettendomi di documentare il fenomeno con dei casi concreti. E così ho fatto. Di ritorno da Milano, dopo un viaggio su un treno regionale “veloce” (che tale è solo di nome) faccio tappa all’Esselunga di Voghera, a due passi dalla stazione ferroviaria. Per la precisione in via Meucci.
Non fatico molto a trovare il prosciutto crudo che stavo cercando. Nel bancone dei salumi, a non più di 30 centimetri l’uno dall’altro, fanno bella mostra due confezioni di un prestigioso marchio della salumeria italiana, Citterio. Sono quasi identiche nel formato, nel peso (70 grammi) e riportano con grande evidenza il medesimo claim: «Taglio fresco». Stesso carattere, identico il colore di fondo. Certo, sulla confezione del prosciutto di Parma Dop compare il bollino del consorzio. In compenso sull’altra c’è un brand accattivante: «Prosciutto del Poggio». Li metto entrambi nella borsa gialla dell’Esselunga, assieme a un chilogrammo di bollito misto, due litri di latte e quattro bottiglie di birra. Poi mi avvio alla cassa. Pago e scendo nel parcheggio sotterraneo.

Prima di avviare il motore della Panda dò una sbirciata allo scontrino, fondamentale per fare il confronto fra il prosciutto Dop e il clone. E qui arriva la sorpresa: la cassiera ha battuto due volte lo stesso prezzo. Di più: ha considerato che le due vaschette di prosciutto fossero uguali, compiendo la magica operazione che abbrevia i tempi al momento di imbustare i prodotti acquistati: prima si preme il bottone due (o tre, quattro, cinque…) sul registratore di cassa, poi il “per”, infine il prezzo unitario: 2,79 euro. Che è poi quello del prosciutto non-Dop, quello del Poggio.
Costatato l’errore risalgo al piano terra e guadagno la cassa centrale, incredibilmente senza coda di venerdì pomeriggio. Assieme al personale dell’Esselunga, gentile e disponibile come sempre, ricostruisco l’errore: le due vaschette hanno ingannato perfino la cassiera. Il Parma costa 3,29 euro la vaschetta e l’altro, in effetti, 2,79.
Lo scontrino, però, non mi aiuta. Né è pensabile battere i due prodotti una seconda volta. Così il personale dell’assistenza ha un’idea che vedete nella foto in apertura del post: due foglietti adesivi con i prezzi dei due prodotti. Fra l’altro non riesco nemmeno a pagare la differenza. Il responsabile del magazzino mi spiega che la questione è finita lì, scusandosi per l’inconveniente.
A quel punto faccio due conti. Il Parma della Citterio al chilo costa 47 euro tondi. Il prosciutto crudo non-Dop – sempre Citterio – 39,86. Oltre sette euro di differenza. Una lettura attenta dell’etichetta, con l’aiuto della lente però, vista la piccolezza dei caratteri, mi permette di risalire allo stabilimento di produzione che è lo stesso e si trova a Poggio Sant’Ilario, nel comune di Felino. Il codice Ean, riportato sotto al codice a barre non aiuta, visto che rimanda alla sede legale della Citterio: Corso Europa 206, Rho.
A quel punto la missione è compiuta. Con un risultato addirittura superiore alla attese. Non solo ho scoperto un prosciutto non-Dop che fa concorrenza a quello Dop del medesimo produttore, ma ho verificato anche che riesce a mandare in tilt le cassiere. Figuriamoci i consumatori che nel 96% dei casi non sanno bene cosa significhi il bollino Dop. Se avessi voluto sceneggiare la commedia delle beffe che va in scena ogni giorno, protagonisti i prodotti made in Italy fatti a partire da materie prime non italiane, non avrei potuto fare di meglio. A volte la realtà supera l’immaginazione.

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4 COMMENTS

  1. Partendo dall’errore di una cassiera distratta che non si accorge della macroscopica differenza tra due buste di prosciutto, hai costruito un articolo pieno di illazioni basate sul nulla: “clone”, “finto prosciutto italiano”, ecc. Complimenti, sei pronto per lavorare a Report.
    Ti auguro che nessuno della Citterio legga questa collezione di scemenze, altrimenti sono cazzi.

    • Caro Prez, pubblico volentieri il suo commento così ho la possibilità di chiarire alcuni aspetti che penso siano fondamentali. Vado con ordine.
      1) L’errore della cassiera che ha confuso i due prosciutti, attribuendo loro il medesimo prezzo, è dovuto al fatto che le confezioni sono obiettivamente molto simili. Forse troppo. Tenga conto, poi, che avevo acquistato i due prosciutti proprio per verificare quanto poco fossero distinguibili a un occhio poco attento. Il test alla cassa è stato incidentale quanto opportuno.
      2) Per ricostruire la presunta origine non italiana del Prosciutto del Poggio mi sono basato anche sui calcoli fatti da Lisa Ferrarini, presidente dell’Assica che sostiene l’esiguità dei margini sui prosciutti Dop ottenuti da cosce di maiale italiano, a norma di disciplinare del Consorzio. Secondo lei un prosciutto che costa sette euro in meno al chilogrammo rispetto al Parma Dop può essere italiano?
      3) Il riferimento a Report lo prendo come un augurio. La ritengo una delle trasmissioni più documentate e meglio fatte mai andate in onda sulla televisione italiana.
      4) Nel post non ho detto nulla di offensivo nei confronti della Citterio. Semplicemente che il Prosciutto del Poggio non è italiano. Come ho fatto per altre decine di prodotti che ho recensito negli ultimi tre anni su Etichettopoli: olio, miele, sughi di pomodoro, conserve. Talvolta, poi, l’origine non italiana dei prodotti è addirittura dichiarata in etichetta. Secondo lei c’è qualcosa di male nel farlo notare? Forse il rischio di aiutare i consumatori a capire cosa mettono nel carrello e portano a tavola?
      Senza contare che proprio grazie alle importazioni massicce di carne di maiale dall’estero, negli ultimi 15 anni nella sola Emilia hanno chiuso i battenti oltre 7 allevamenti di maiali su 10. Quante persone pensa che abbiano perso il lavoro per questo?

  2. Caro Attilio, mi adeguo e passo al lei. Tenterò anch’io di andare con ordine.

    L’errore della cassiera che ha confuso i due prosciutti, attribuendo loro il medesimo prezzo, è dovuto al fatto che le confezioni sono obiettivamente molto simili. Forse troppo.

    Le faccio notare che il marchio del prosciutto di Parma copre quasi la metà della confezione; che il lato destro della medesima (l’unica parte obiettivamente simile) riporta chiaramente la dicitura “Prosciutto di Parma D.O.P.”, a differenza dell’altra dove c’è un generico “Prosciutto Crudo”. Ora, a meno di non essere portatori di miopia grave oppure parecchio distratti, è francamente impossibile confonderle. Non è necessario armarsi di lente di ingrandimento per capire al volo che sono due prodotti diversi.

    Tenga conto, poi, che avevo acquistato i due prosciutti proprio per verificare quanto poco fossero distinguibili a un occhio poco attento. Il test alla cassa è stato incidentale quanto opportuno.

    Questo lascia pensare che lei possa avere intenzionalmente cercato di ingannare la cassiera, magari sovrapponendo le due confezioni in modo che restasse visibile solo il lato destro, al fine di dimostrare la sua tesi. Lo so, la mia è un’illazione, ma ci sta.

    Secondo lei un prosciutto che costa sette euro in meno al chilogrammo rispetto al Parma Dop può essere italiano?

    Attilio, questo è un trucchetto da imbonitore. La domanda corretta sarebbe: “Secondo lei un prosciutto che costa il 15% in meno al chilogrammo rispetto al Parma Dop può essere italiano?”.
    Considerati i costi aggiuntivi che certamente gravano sui partecipanti al consorzio del Parma, non vedo perché un prosciutto non possa essere prodotto in Italia e venduto con uno sconto relativamente modesto rispetto a quello che si fregia di un marchio prestigioso. Sarebbe come dire che se un Nebbiolo costa il 15% in meno rispetto ad un Barbaresco deve per forza essere prodotto con uve provenienti dall’estero. Si renderà conto che è un’affermazione ridicola.

    Il riferimento a Report lo prendo come un augurio. La ritengo una delle trasmissioni più documentate e meglio fatte mai andate in onda sulla televisione italiana.

    Qualche anno fa la pensavo anch’io come lei, poi ho cominciato a notare un sacco di cose curiose e la mia fiducia nell’obiettività di Gabanelli e compagnia ha cominciato a vacillare. Il colpo di grazia l’ha dato, guarda caso, proprio una trasmissione dedicata a un tema alimentare: quella sui brevetti in agricoltura. Non è questa la sede per scendere nei dettagli, ma la invito a dare un’occhiata agli articoli che le hanno dedicato persone certamente più competenti di me come Silvia Bencivelli e Dario Bressanini.

    Nel post non ho detto nulla di offensivo nei confronti della Citterio. Semplicemente che il Prosciutto del Poggio non è italiano.

    Alla luce di quanto ho detto prima, questa mi sembra un’affermazione quantomeno azzardata, di sicuro non documentata e quindi probabilmente calunniosa.

    Talvolta, poi, l’origine non italiana dei prodotti è addirittura dichiarata in etichetta. Secondo lei c’è qualcosa di male nel farlo notare? Forse il rischio di aiutare i consumatori a capire cosa mettono nel carrello e portano a tavola?

    Nulla di male, anzi. In passato ho letto articoli molto interessanti sul suo blog, ma questo mi è sembrato talmente scombiccherato che non sono riuscito a trattenermi dal farglielo notare. L’invito è quello di proseguire nel suo lavoro, ma usando metodi un pochino meno discutibili.

    Concludo il mio contributo con un consiglio buono per tutti: comprate gli affettati al banco dei salumi. Pagare un prosciutto di Parma 47 euro al chilo, per giunta tagliato da tempo e conservato nella plastica, mi permetta, è un po’ da fessacchiotti.

    • Caro Prez, sia pure con ritardo rispondo a questo nuovo commento.
      Temo che le cassiere, come il 96% dei consumatori, non conoscano bene il significato del marchio Dop. Comunque mi ha dato un’idea per uno dei prossimi approfondimenti…
      Sulla confusione alla cassa fra i due prosciutti, il Dop e il non-Dop, mi dispiace deluderla: non ho intenzionalmente sovrapposto le due confezioni. Mi attribuisce una malafede di fondo che non mi appartiene. Non ragiono come i grandi falsari del made in Italy: quando faccio queste prove mi comporto da osservatore. Altrimenti finisce il divertimento del giornalista e del blogger.
      Sull’origine straniera del prosciutto non-Dop, le faccio notare, caro Prez, che sono i numeri a parlare. Non quelle che lei definisce illazioni: la contabilità delle cosce non torna (per il dettaglio può dare un’occhiata al post del 28/5/2011) e c’è il timore che perfino per i prosciutti Dop venga utilizzata materia prima non italiana. Viste le leggi che lo consentono, utilizzare cosce italiane per fare un prosciutto non-Dop sarebbe da stolti. Altro che calunnia!
      Condivido il suo consiglio di acquistare il prosciutto al banco, costa meno ed è davvero un «taglio fresco», non come i due prosciutti crudi Citterio di cui mi sono occupato nel post, che pure riportano proprio questa definizione in caratteri cubitali. Ma per fare la prova etichetta non avevo alternativa che partire dalle vaschette di preaffettato.
      Capisco il desiderio di confutare le argomentazioni di Etichettopoli: ci sono intere falangi di lobbisti dell’industria alimentare a condividerlo. Ma se queste sono le argomentazioni meglio munirsi di ventose efficaci: arrampicarsi sugli specchi a mani nude può essere pericoloso.

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