Il blogger fa outing: sull’Expo mi ero sbagliato

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Sento di doverlo confessare ai miei lettori: sull’Expo mi ero sbagliato. Quando ancora il quartiere espositivo era frequentato soltanto da ruspe e operai, ho partecipato al grande gioco che allora andava molto di moda. Potremmo intitolarlo così: per me l’esposizione universale dovrebbe essere…  Con infinite varianti del tipo: all’Expo mi aspetto di trovare… Oppure: non sarà Expo senza… Fiumi di parole. Inutili. Ridicole, col senno del poi.

Ci sbagliavamo in tanti. Ma, soprattutto, mi sbagliavo io. Il motivo è semplice: sono caduto nell’errore che compiono spesso quanti fanno il mestiere di giornalista. Ho immaginato l’esposizione universale, prima ancora di averla vista. In particolare prima che cominciasse. E l’ho caricata dei significati che interessavano a me. Il made in Italy, la trasparenza dei cibi, la sostenibilità sociale delle filiere, i diritti di chi produce e chi consuma. Temi su cui ho speso parecchio del mio tempo negli ultimi cinque o sei anni.

È accaduto che l’Expo uscisse molto diversa da come me l’ero immaginata. Dopo aver battuto Cardo e Decumano per parecchi giorni comincio a capirne il significato collettivo. Fondamentale per un evento dipendente dalle decine di migliaia di visitatori che ogni giorno varcano i cancelli, sborsando fino a 39 euro. La kermesse di Rho è diventato un fenomeno sociale di massa. Un rito collettivo lontano anni luce da buona parte dei concetti che noi associamo all’alimentazione. Soprattutto non è per nulla politically correct. Anzi è quanto di più «politicamente scorretto» si sia verificato da un quarto di secolo a questa parte.

L’Expo è come una finestra aperta sugli anni Ottanta, con il bagaglio di edonismo e ricerca di appagamento sensoriale e ludico propria al decennio più divertente che, da cinquantacinquenne, possa ricordare. I visitatori entrano nel quartiere fieristico per divertirsi, mangiare, bere, ballare, ridere. Lasciarsi stupire da quanto vedono, assaggiano, toccano o semplicemente immaginano. Il bagaglio di preoccupazioni legate alla vita di tutti giorni cercano di lasciarlo fuori dai cancelli. Rigorosamente sigillato. Per un giorno o anche solo per poche ore cercano la gratificazione sensoriale più completa.

Non mi meraviglio se gli eventi «impegnati», quelli gonfi di significati sociali vadano deserti. Come è accaduto al convegno intitolato «Rapporto tra fedi monoteiste e alimentazione», svoltosi alla fine di maggio alla Cascina Triulza. Ecco come lo raccontava Federica Cavadini sul Corriere della Sera:

Dobbiamo proporre più contenuti. O Expo rischia di essere una nuova Gardaland». L’appello arriva dal fondatore della Casa della Carità, don Virginio Colmegna che ieri mattina era all’esposizione per partecipare a un convegno sul tema «Rapporto fra fedi monoteiste e alimentazione». Poco più di una decina le persone nell’auditorium di Cascina Triulza, il padiglione della società civile e del terzo settore. Mentre pochi metri oltre, sul Decumano, c’è il pienone. Con il logo dell’istituto sui cappellini o sulla t-shirt avanzano una dopo l’altra le scolaresche. «Vedo tantissime persone oggi all’esposizione – dice il presidente della Casa della Carità – ma pochissime qui. Lo spazio riservato al non profit è meno frequentato degli altri e invece dovrebbe essere centrale. Se il tema è nutrire il pianeta dobbiamo impegnarci di più e subito visto che siamo all’inizio. Perché non deve essere il consumismo a prevalere».

Dunque le decine di migliaia di persone che affollavano l’esposizione universale quel giorno (per la precisione era il 26 maggio) sbagliavano. A differenza della decina di unti dal verbo della verità assoluta e della giustizia che si sono sciroppati le bischerate (licenza montanelliana) del convegno. C’è un che di inquietante in tutto questo: il rifiuto di accettare che le persone, gli individui, possano decidere cosa fare, dove recarsi e soprattutto, con quale spirito. La Gardaland dell’alimentazione, ammesso che l’esposizione sia davvero questo, va combattuta e avversata con ogni mezzo. Guai a tollerare il «no» della massa ad assistere alla proiezione della Corazzata Potemkin. Bisogna partecipare, assorbirne i concetti supremi, introiettarli, farli propri e promuoverli ad ogni costo. Chi non accetta questa catarsi culturale è un coglione.

Ebbene, all’Expo i coglioni si stanno vendicando: disertano tutte le minchiate che punteggiano qua e là l’agenda della manifestazione. Incluse le decine di conferenze stampa in cui aziende, enti e organizzazioni varie ammanniscono ai malcapitati giornalisti informazioni di cui non frega nulla a nessuno. Se non a chi le propala. Un gioco che normalmente funziona anche. Non nella grande arena alimentare di Rho. Per fortuna.

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