Così il falso olio italiano diventa extravergine bio

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Maxisequestro di falso extravergine bio taroccato in Puglia. La Guardia di Finanza di Bari e Andria ha sgominato un’organizzazione criminale dedita alla contraffazione dell’olio.  Grazie alla sovrapposizione di  documenti fiscali e di trasporto falsi, l’olio di produzione  spagnola veniva trasformato in extravergine 100% italiano biologico per essere immesso poi nel circuito commerciale e finire sulle tavole di ignari consumatori che pensavano di acquistare un prodotto pregiato. Il Tribunale di Taranto ha emesso 16 ordinanze di custodia cautelare e disposto il sequestro di 400 tonnellate di olio. In pratica  tutta la produzione: un aspetto non irrilevante per comprendere la portata dell’operazione «Aliud pro olio».

L’olio spagnolo diventava italiano, grazie a una fitta rete di intermediari, alcuni pugliesi altri calabresi, che fornivano false fatture di vendita per partite di extravergine mai consegnato, né tantomeno prodotto. Le bolle di accompagnamento e le fatture emesse dai veri produttori in Spagna, invece, venivano letteralmente fatte sparire.

Fin qui la cronaca. Grave già di per sé perché conferma le accuse  del New York Times che aveva identificato l’industria olearia italiana esclusivamente come un covo di falsificatori. Così non è, naturalmente, ma l’operazione della Gdf conferma che esiste una zona grigia, in cui si muovono organizzazioni criminali ben ramificate e molto efficienti che falsificano sistematicamente le eccellenze del made in Italy.

LA REAZIONE DI ASSITOL E FEDEROLIO. Purtroppo l’industria di settore ha perso una buona occasione per tacere. In una nota diffusa a caldo (ecco il link dove scaricarla) e intitolata «Assitol e Federolio plaudono ad operazioni che contribuiscono a tutelare anche l’industria e il commercio oleari e le imprese che operano correttamente»,  le due organizzazioni, pur apprezzando «il valore di queste operazioni» (e ci mancherebbe)  si affrettano a precisare che «non siamo un Paese autosufficiente: il consumo interno è più elevato della produzione nazionale». Dunque, «le importazioni di olio sono indispensabili e per soddisfare la domanda interna e per esportare prodotti confezionati verso i mercati esteri, consentendoci di mantenere il primato come primo Paese esportatore di olio di oliva in confezioni, che vuol dire ricchezza per tutto il Pese in termini di bilancia commerciale nazionale (oltre 1 miliardo di euro)».

LA COLPA È DEI (SOLITI) GIORNALISTI. Ma non è finita. Le due associazioni di imprese stigmatizzano «alcune affermazioni riportate dai mezzi d’informazione» (alla fine, come sempre, la colpa è dei «soliti» giornalisti), chiarendo che «certi episodi fraudolenti nulla hanno a che vedere con l’aumento delle importazioni di oli di oliva da Paesi esteri». E concludono: «se in Italia si confezionasse olio di oliva utilizzando solo materie prime italiane si arriverebbe al paradosso che i consumatori italiani si troverebbero costretti ad acquistare bottiglie di oli d’oliva confezionate all’estero».

Oltre a essere intempestiva e inopportuna, la nota, in realtà svela una dimensione allarmante, che conferma in sostanza la ricostruzione del New York Times. La nostra industria olearia rivendica il diritto di importare olio straniero, confezionarlo sotto marchi italianissimi ed esportarlo nel resto del mondo. Contando sul fatto che, magari grazie all’uso sapiente di tricolori e simboli italiani, i consumatori americani, tedeschi, inglesi, russi o cinesi, lo prendano per vero olio made in Italy. È corretto un modello produttivo e commerciale di questo genere? Formalmente forse si, almeno nei Paesi in cui non esiste l’obbligo di dichiarare in etichetta l’origine della materia prima. Nella sostanza no. Ed pure pericoloso: quando all’estero si accorgeranno  che dal Belpaese arriva a tonnellate falso extravergine italiano ci accuseranno di essere dei taroccatori. In Usa è già accaduto, per il resto del mondo è solo una questione di tempo.

Nel nostro Paese, fortunatamente, è obbligatorio scrivere sull’etichetta la provenienza della materia prima utilizzata per l’extravergine. E questo ha preservato i consumatori dall’inganno sistematico che si verifica sugli altri mercati.

DOVE SI IMBOTTIGLIA L’EXTRAVERGINE COMUNITARIO. Personalmente non trovo una grande differenza fra l’olio comunitario imbottigliato in italia e il medesimo prodotto imbottigliato all’estero. Si tratta comunque di alimenti non italiani. Nel secondo caso, purtroppo, i consumatori che l’acquistano, e sono la stragrande maggioranza, grazie all’uso di marchi storici della nostra tradizione oleicola, pensano di mettere nel carrello del vero extravergine made in Italy, come ho verificato intervistandone oltre 100 (ecco il post dove ci sono i risultati del sondaggio). Con grave danno, fra l’altro, per i nostri agricoltori che faticano a vendere le olive per le importazioni di prodotti a basso costo provenienti, guardacaso, dalla Spagna. Chissà cosa accadrebbe se l’origine di questi oli fosse scritta in caratteri ben visibili sul fronte della confezione – come fra l’altro prevede una legge approvata di recente e misteriosamente mai applicata – e non camuffata sul retro.

LE IMPORTAZIONI DAL NORD AFRICA. Ma c’è poi una enorme area grigia, ancora tutta da esplorare, sui flussi di olio in arrivo dal Nord Africa verso l’Europa. Il sospetto è che, giunto in Paesi con una legislazione meno severa della nostra, acquisisca facilmente il passaporto comunitario per finire poi nel ciclo produttivo. Ricordo bene la levata di scudi dell’industria europea di settore quando l’Italia ha introdotto norme stringenti per l’analisi chimica dell’olio (ecco il post dove ne parlavo). D’altronde i colossi oleari spagnoli rivendicano il diritto di approvvigionarsi non soltanto nel bacino del Mediterraneo, ma addirittura in tutti e cinque i continenti. Diceva all’inizio dell’anno Jaime Carbò, amministratore delegato della Deoleo: «Abbiamo la libertà di comprare olio in ogni parte del mondo e domani saremo liberi di confezionarlo in ogni parte del mondo. Quest’anno abbiamo comprato olio australiano, lo abbiamo confezionato in Europa e lo abbiamo venduto in America». La Deoleo (acquisita di recente da un fondo inglese) è proprietaria fra l’altro dei marchi Sasso, Bertolli e Carapelli. E poi ci meravigliamo quando in Usa ci danno dei taroccatori? Fondare un modello di business sulle etichette reticenti è un boomerang. Prima o poi la verità ci presenterà il conto.

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