Il ministro Catania l’ha detto: «Mi batterò per l’etichettatura d’origine»

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Alla fine il ministro Mario Catania l’ha detto: «Mi batterò per l’etichettatura d’origine dei prodotti italiani. A Bruxelles chiederò una normativa che identifichi in modo evidente l’origine del prodotto, anche per quelli trasformati. Si tratta di una battaglia etica, oltre che economica e culturale». 

La cornice di queste dichiarazioni bastava a spingere l’unico vero tecnico nel governo dei Professori a un impegno di questa portata: l’assemblea della Coldiretti che si è svolta a Roma, ieri 5 luglio 2012. Purtroppo non c’ero, inchiodato come sempre alla scrivania del giornale per cui lavoro. Quindi devo accontentarmi di quel che riportano le agenzie.
Le parole di Catania però hanno lo stesso effetto di uno sparo nella notte: l’Italia riapre il confronto con l’Unione europea sulla tracciabilità e l’origine dei prodotti. Il problema – non mi stancherò mai di dirlo – non sono le frodi: per i falsi made in Italy esistono leggi sufficienti a intervenire con durezza. La vera concorrenza sleale che priva il nostro Paese di una ricchezza enorme sono i finti prodotti italiani. Quelli che hanno un nome, una confezione e un produttore italiano. Ma sono ottenuti da materie prime che con il nostro Paese, la nostra agricoltura, non c’entrano nulla.
Il problema è politico, economico e sociale allo stesso tempo. Ed è in questa chiave che l’ho affrontato finora su Etichettopoli.com. E’ politico perché i no che finora hanno frustrato i tentativi dell’Italia di far chiarezza su quel che si porta in tavola arriva dall’eurogoverno, la Commissione europea. La quale a sua volta è molto (troppo) sensibile alle pressioni della grande industria alimentare, inclusa quella di casa nostra. La dimensione sociale si riassume nel furto di identità che priva di lavoro le migliori filiere agroalimentari italiane. Ogni volta che si utilizza una materia prima importata camuffandola come made in Italy si toglie lavoro a centinaia di migliaia di persone.
C’è poi un ulteriore aspetto, non meno importante: il diritto dei consumatori di saper quel che mangiano. Liberi a quel punto di scegliere fra il vero made in Italy – indubbiamente più costoso ma di miglior qualità – e tutto il resto.

Guardacaso a riempirci di materie prime lavorate e vendute poi con nomi italianissimi – dalle cosce di maiale al latte in polvere – sono tedeschi e olandesi i cui governi si battono per il rigore nei conti pubblici esportato sulle baionette della speculazione finanziaria. Le stesse che hanno messo in ginocchio Grecia, Irlanda, Portogallo e più di recente Spagna e Italia. Il rigore va bene se si tratta di debito pubblico. Quando al contrario la chiarezza punta a difendere il nostro lavoro e in definitiva la produzione di ricchezza all’interno del nostro Paese, allora la risposta è una sola: «nein».
Il silenzio dell’industria alle parole di Catania non deve meravigliare: i capitani dell’alimentare di casa nostra sono i primi nemici dell’etichetta trasparente. Il ministro lo sa bene e penso che nel prevedibile scontro che ci sarà con Bruxelles sia cosciente di doversi proteggere le spalle. Ma non sarà solo. Dall’esito del confronto dipende il futuro di un milione e mezzo fra agricoltori e allevatori.
Per quel che mi riguarda non aspetto altro che dar fuoco alle polveri.

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