Il Sacro Collegio Alimentare dice no all’etichetta d’origine

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L’etichetta d’origine? Non è il momento. Proprio ora che l’industria alimentare italiana sta dando segnali di ripresa sul fronte dell’export, perché intestardirsi a scrivere sulla confezione da dove arrivano le materie prime utilizzate… E poi garantiano noi industriali la sicurezza di tutta la filiera.
Questo, in sostanza, è emerso martedì scorso, 15 marzo, nel corso di un pranzo tenutosi a Milano, all’Osteria del Treno. Presenti, oltre a un certo numero di giornalisti (incluso in sottoscritto) lo stato maggiore della Fiera di Parma, a cominciare dall’ad Antonio Cellie, Annalisa Sassi, presidente dei giovani di Federalimentare e i rappresentanti di Slow Food., la corazzata del mangiar sano di Carlo Petrini. Nulla di ufficiale: si trattava di fare il punto su Cibus Tour, l’edizione dedicata al grande pubblico della storica manifestazione che si tiene a Parma, organizzata (e controllata) in coabitazione dalla locale Fiera e da Federalimentare. Slow Food durante Cibus Tour (15-17 aprile) riempirà un intero padiglione, il numero 7, con un proprio format, “Po(r)co ma buono”: attività didattiche, degustazioni guidate, teatri del gusto, conferenze, mostre fotografiche, tavole rotonde. Tutto sul maiale e i salumi. Una sfida, quella di Petrini: portare un messaggio legato al gusto, alla tipicità, alle produzioni artigianali e su piccola scala nel tempio dell’industria alimentare italiana.
Ma non è questo il punto. Il sottoscritto, che è un provocatore nato, non ha resistito alla tentazione di introdurre il tema dell’etichettatura d’origine e della tracciabilità. Un po’ come parlare del diavolo a un Concistoro di cardinali. E i componenti del “Sacro Collegio Alimentare” (mi perdonino i veri cardinali) non si sono tirati indietro. «Altro che etichetta, stiamo esportando bene, andiamo avanti così. E poi a garantire su tutta la filiera che porta dal campo (non italiano, ndr) alla tavola, ci pensiamo noi». I 19 milioni di prosciutti importati ogni anno e che diventano poi magicamente italiani? Il grano rigorosamente non made in Italy impiegato per fare spaghetti, farfalle e tortiglioni? Il latte in polvere o addirittura congelato che entra a migliaia di ettolitri ogni giorno dai valichi alpini per produrre “italianissimi” formaggi? L’extravergine africano che finisce sulle nostre tavole col tricolore sulla bottiglia? Chissenefrega. Vogliamo davvero mettere in difficoltà l’industria obbligandola a indicare l’origine dei prodotti in etichetta?
La risposta del “Sacro Collegio Alimentare” è una sola: assolutamente no! E questa era implicita nelle parole che ho ascoltato martedì all’Osteria del Treno.

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