Indagano sulla pasta Divella col tricolore, ma con gli altri maccheroni non italiani come la mettiamo?

0
2024

La notizia è uscita in questi giorni su Corriere e Repubblica: il Corpo Forestale dello Stato sta indagando sulle confezioni di pasta Divella che recano in evidenza un nastro tricolore nel logo. Secondo le leggi vigenti (dovrebbe trattarsi di un Decreto del 2009, ma vi saprò dire con precisione presto) non è possibile inserire sulla confezioni loghi o simboli che richiamino l’italianità di un prodotto se non è fatto con materie prime provenienti, interamente, dal nostro Paese. Ora, secondo le ricostruzioni di stampa, spaghetti, pennette e maccheroni Divella conterrebbero al massimo il 70% di grano duro italiano. Da qui l’indagine della Forestale.
Le reazioni dell’industria di settore non si sono fatte attendere. Secondo Paolo Barilla, presidente dell’Aidepi, la Confindustria dei pastai «le normative nazionali» che proibiscono di utilizzare i simboli del made in Italy a chi utilizza materie prime straniere sono «intempestive rispetto alle leggi comunitarie. Soprattutto», aggiunge Barilla, «perché non vendiamo solo prodotti, ma vendiamo lo stile Italia, in cui il concetto di made in Italy s’identifica nel saper fare e non nell’origine della materia prima». E in queste poche parole è riassunta l’impostazione della grande industria alimentare italiana: non seccateci con la provenienza degli ingredienti, l’importante è la ricetta, assieme alle tecnologie di produzione. Dubbi? Ci pensa il direttore generale dell’Aidepi, Luca Garaglini, a fugarli: «L’essenza della pasta italiana sta nella ricetta e cioè la trasformazione del grano duro in farina».
Tricolore a parte, il problema è che i consumatori percepiscono come italiani i prodotti il cui brand sembri tale, a prescindere dall’origine degli ingredienti impiegati per prepararlo. Ma di pasta tutta italiana ce n’è pochissima. La stragrande maggioranza delle marche commerciali utilizzano infatti grano duro proveniente da Canada e Ucraina. Secondo i pastai perché i nostri agricoltori non ne producono abbastanza. La realtà è diversa: confrontandosi coi i prezzi delle materie prime d’importazione spesso si rischia di rimetterci a coltivare i cereali. Così, alla fine, farfalle, spaghetti e maccheroni che affollano gli scaffali dei supermercati hanno il passaporto italiano solo perché vengono trasformati nel nostro Paese. Non perché ci sono nati.
Manca solo, a questo punto, la dimensione epifanica di questo made in Italy che viene da fuori. Mi permetto di esplicitarla io, con le parole del presidente di Federalimentare, Filippo Ferrua Magliani: «Il made in Italy? È solo una categoria del pensiero». Il resto è marketing.

Print Friendly, PDF & Email

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here