Invasione di maiali alla Borsa di Milano. Per salvare il Made in Italy

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Erano oltre mille e arrivavano un po’ da tutte le regioni d’Italia gli allevatori che hanno assediatoquesta mattina, martedì 26 luglio, la Borsa di Milano per denunciare i danni provocati dalla speculazione finanziaria su uno dei settori simbolo del Made in Italy, l’allevamento dei suini. «Su ogni capo venduto», mi raccontava questa mattina, Gianpaolo Morini, un allevatore di Godi (Piacenza) che cresce ogni anno 4.500 maiali, «ci si perdono 30 euro. Io per fortuna la carne la trasformo e produco salumi. Ma dovessi vendere le bestie potrei anche chiudere. Certo che non si possono trasformare in salumifici tutti gli allevamenti…». Morini pur combattendo ogni giorno per far tornare i conti, il problema l’ha risolto. Nell’agirturismo a due passi da Carpaneto Piacentino offre solo i prodotti della sua terra, coppe e salami stagionati così belli che pare che parlino, verdura e frutta profumatissima come non pensi sia possibile… Ma tra le bandiere e gli striscioni della Coldiretti che ha organizzato l’occupazione pacifica di Piazza Affari (fin troppo pacifica, visto che agli operatori di Borsa sono stati offerti dei panini con prosciutto e salame), si intravvedevano i volti seri degli allevatori. Fra i funzionari della piazza finanziaria milanese c’è pure chi è stato al gioco e, sceso in strada, ha preso in braccio un maialino. 
La contabilità del disastro per la nostra suinicoltura sta tutta in quei 30 euro di perdita per ogni capo venduto. Eppure dalla stalla al piatto quella stessa carne che all’origine vale meno di quel che costa (grazie alle speculazioni) si moltiplica per cinque. A fare il conto è stata la Coldiretti. Per ogni euro speso in braciole dai consumatori appena 15,5 centesimi arrivano all’allevatore, 10,5 vanno al macellatore, 25,5 al trasformatore e ben 48,5 alla distribuzione commerciale. La manipolazione dei prezzi è agevolata anche dall’aumento delle importazioni di suini dall’estero, cresciute nell’ultimo anno del 22 per cento. Maiali magri, nel senso letterale del termine, allevati malamente, al risparmio e con chissà quali materie prime. Nulla a che vedere con il mais e le farine di cereali utilizzate da noi. Animali che di fronte ai nostri impallidiscono. Utilizzati però da chi specula come una testa d’ariete per abbattere le quotazioni all’origine. Con la complicità dell’industria di trasformazione e della distribuzione. 
Per fortuna la protesta di Piazza Affari ha colto nel segno. Nella City milanese si erano appena spenti gli echi della protesta che da Roma arrivava la notizia: il ministro Francesco Saverio Romano ha convocato per il 29, questo venerdì, il tavolo suinicolo per definire un piano di filiera. 
Sui gradini di Palazzo Mezzanotte (dove c’è quel che resta del nostro mercato azionario, visto che il resto è a Londra da quando gli inglesi hanno conquistato i listini azionari milanesi) sotto un cielo insolitamente limpido per la Pianura Padana d’estate, c’è stato il primo segnale che la politica prova a organizzare una risposta. Il tempo però stringe. Solo nell’ultimo anno i nostri allevatori hanno perso 300 milioni di euro a crescere i suini Made in Italy. A differenza del mondo degli affari che le perdite le socializza, spalmandole su milioni di ignari risparmiatori, gli imprenditori agricoli le coprono in proprio. E non possono andare avanti all’infinito. 
Dimenticavo: i festeggiamenti dell’Assica (gli industriali delle carni) per quel +13,2% nell’export di salumi suonano sempre di più come una beffa: avanti di questo passo di vero Made in Italy da esportare ne rimarrà ben poco. Noi stessi dovremo accontentarci dei cibi “fatti all’italiana” da materie prime scadenti e sapientemente camuffate con le tecnologie dell’industria. Se è questo il futuro a cui qualcuno sta lavorando abbia la compiacenza di ammetterlo. Non possiamo impedire a nessuno (purtroppo) di taroccare il Made in Italy. Quelli come il sottoscritto vogliono però essere liberi di andare per un’altra strada.
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