La birra è artigianale, ma non si può dirlo. Per legge

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La birra artigianale esiste, in Italia come nel resto del mondo. Ed è anche molto diversa da quella industriale. Ma sull’etichetta i produttori non possono scriverlo. In pratica anche se la bionda uscisse da un birrificio artigianale e dovesse rispettare le regole severissime dell’editto della purezza (un codice emanato in Germania nel 1561 che stabiliva un insieme di prescrizioni molto rigide) non si potrebbe definire «birra artigianale». Non mi sono mai occupato di bevande alcoliche con Etichettopoli ma ho deciso di farlo visitato Birrart, una fiera della birra che si è svolta all’inizio del mese a Casteggio, in provincia di Pavia. Girando fra gli stend dei birrifici i sono accorto che su alcune etichetta compariva la scritta «birra artigianale», su altre no. E ho fatto una scoperta: secondo la legge vigente (è la numero 1354 del 16 agosto 1962) la bionda può essere classificata esclusivamente  in tre modi: birra analcolica, birra leggera, doppio malto. Per decenni azienda artigianali sparse ai quattro angoli della Penisola hanno prodotto e commercializzato birre che in etichetta si sono sempre dichiarate «artigianali». In pratica fino all’altroieri non è accaduto nulla ma di recente anche da noi stiamo iniziando a interpretare le leggi all’europea, secondo il vezzo dei soloni di Bruxelles per i quali tutto quanto non è esplicitamente previsto dalle norme è implicitamente vietato. Così, nel 2011, è scattata la prima sanzione, inflitta al birrificio Almond 22, multato dal Corpo Forestale dello Stato per aver denominato come «birra artigianale» un proprio prodotto. Un provvedimento che per stessa ammissione dell’ispettorato della Forestale – che ho interpellato in proposito – potrebbe scattare nuovamente.
Non di meno almeno il 30 per cento delle etichette utilizzate dai 700 birrifici artigianali riporta la medesima denominazione di Almond 22. Non li ho censiti per evitare di fornire una notitia criminis e innescare una raffica di multe. Devo confessare però che sono stato tentato di farlo: molti dei titolari dei birrifici che esponevano a Casteggio e che etichettano il proprio prodotto come «artigianale», se la sono presa col sottoscritto, quando ho fatto notare loro che erano «fuori legge».
Alla fine, dunque, a decretare l’artigianalità della singola bionda, è una sorta di legittimazione antropologica  a riconoscerla come «non industriale» sono i consumatori. Ma è una certificazione ad alto rischio: le multinazionali del tarocco puntano proprio a questo. Fra l’altro, come ho scoperto analizzando ben 20 birre commerciali, come sempre quando la legislazione non consente di caratterizzare un prodotto, le denominazioni utilizzate sono di pura fantasia e danno origine a una vera giungla. Mi sono divertito a elencarle tutte e inserirle in un dossier per immagini scaricabile a questo link, dove ho riassunto i punti salienti delle mie scoperte sulla bionda che per legge deve rimanere anonima.
Dimenticavo, sempre in forza delle disposizioni di legge, le bevande che facciano più di 1,2 gradi alcool possono omettere di scrivere in etichetta gli ingredienti. Se vi aspettate di capire qualcosa dalla lettura delle indicazioni riportate sulla bottiglia o sulla lattina, scordatevi di riuscirci.

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