La bufala del velo di silenzio calato sull’extravergine tarocco

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«Nessuno ne parla più, cercano di farVi dimenticare, ma noi continuiamo a ricordarvelo… Truffavano la gente spacciando olio di oliva per extravergine. Ecco i nomi dei 7 primari marchi che da ora sarà meglio evitare!!»

Comincia così, con queste precise parole, un post diventato virale sul Web al punto da essere ripreso – con il solito meccanismo del copia e incolla – per decine, centinaia, migliaia di volte. Sono ben 15.100 i risultati della ricerca con queste parole chiave su Google. La «notizia» likerimbalza poi ciclicamente su tutti i social network, Facebook in testa. E ottiene ad ogni colpo centinaia di «mi piace» e decine di condivisioni. Peccato che sia una bufala bella e buona. Lo dico con certezza assoluta perché nel mio lavoro di giornalista ho scritto più volte dello scandalo dell’extravergine tarocco. Sia di quello venduto in Italia, sia di quello venduto negli stati Uniti. Ne ho scritto io come tanti altri colleghi, su quasi tutti i giornali che si pubblicano in Italia. Peccato che gli zelanti blogger che campano di like non leggano. Non s’informino. Coltivando un’ignoranza indispensabile per chi vive di bufale. Se non hai la più lontana idea di quanto è accaduto realmente fai meno fatica a inventarti una balla, credibile, e a vestirla da notizia.

I FATTI

Ma andiamo con ordine. Ecco i fatti sui quali, secondo il post virale, sarebbe calato un colpevole velo di silenzio. Tutto è partito da un articolo pubblicato a giugno 2015 sulla rivista dei consumatori Il Test Salvagente. L’articolo riferiva di una serie di test fatti su numerose bottiglie di  extravergine d’oliva. Analisi da cui risultava, soprattutto che non si trattava di extravergine, ma di comunissimo olio d’oliva. Nel novembre di quello stesso anno la Procura di Torino annuncia l’apertura di un’indagine sulla vicenda a carico dei sette marchi: Carapelli, Santa Sabina, Bertolli, Coricelli, Sasso, Primadonna (nella versione confezionata per la Lidl) e Antica Badia (per Eurospin). Carapelli, Bertolli e Sasso fanno capo alla multinazionale anglospagnola Deoleo di cui i giornalisti (compreso il sottoscritto) sono tornati ad occuparsi per una triste notizia: l’annuncio della chiusura per lo stabilimento di Inveruno, provincia di Milano.

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Ecco l’immagine che accompagna invariabilmente la bufala sui siti web

Ad indagare è il pm Raffaele Guariniello, ad un certo punto, però il procuratore capo di Torino Antonio Spataro avoca a sé il provvedimento e lo riassegna ai tribunali competenti territorialmente. Dove gli illeciti sarebbero avvenuti. L’accusa è pesante: frode in commercio. I Carabinieri dei Nas di Torino, incaricati di effettuare delle controanalisi sui sette oli incriminati confermano l’ipotesi di partenza: sette bottiglie non contenevano extravergine ma solo olio d’oliva. Da quel che mi risulta i procedimenti proseguono, con la lentezza propria alla nostra giustizia. Ma proseguono.

LE MULTE DELL’ANTITRUST

Nel frattempo (era lo scorso mese di giugno) l’Antitrust che aveva aperto un’indagine parallela a quella della magistratura arriva ai verdetti. E fioccano le sanzioni: 550 euro di multa a Primadonna, il marchio di proprietà della Lidl, Secondo l’Authority il prodotto multato «non corrisponde alla categoria dichiarata in etichetta». Non è extravergine, «trattandosi di olio vergine d’oliva».  Va un po’ meglio ad altri quattro brand: Coricelli, Sasso, Bertolli e Carapelli prendono una multa da 100mila euro ciascuno. Ne danno notizia tutti i giornali. Alcuni in prima pagina.

Il solito Google, impostando una stringa di ricerca fatta dai seguenti termini falso extravergine bertolli carapelli sasso primadonna antitrust fornisce ben 6130 risultati! Eppure, secondo i beninformati blogger «Nessuno ne parla più, cercano di farvi dimenticare…». E dire che bastava face una semplice ricerca su uno dei tanti search engine disponibili per accorgersi che non è così. Posso capire l’ansia di tenersi lontano dai giornali, legata alla campagna denigratoria in atto da anni contro la carta stampata. Ma Google non ha colore e restituisce indifferentemente i risultati di centro, di destra e di sinistra. Così come quelli conservatori e rivoluzionari. L’unico rischio che si corre è di consumarsi i polpastrelli a digitare la stringa di ricerca.

E NON È FINITA

Comunque non è finita qui. Le indagini nelle procure che si stano occupando del caso proseguono. E dopo il provvedimento dell’Antitrust c’è da scommettere che non mancheranno le sorprese anche sul fronte giudiziario. Il vero rischio, in questa vicenda come in altre analoghe, sono i tempi secolari con cui procede la giustizia italiana. Gli indagati fanno conto proprio sui tempi monstre dei processi per puntare sulla prescrizione. Ma questo è un altro discorso.

   

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