La bufala mondialista dell’Economist sulla pizza. Cari inglesi, non capite nulla!

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La preoccupazione che ci copino le nostre specialità alimentari e i nostri tentativi di difenderle, altro non sono, secondo il settimanale inglese The Economist, se non una prova del nostro «dogmatismo culinario». Il pretesto per sferrare un attacco al made in Italy a tavola, grossolano e poco documentato, come vi dirò fra poco, è la pizza napoletana, per la quale l’Italia ha chiesto all’Unesco il riconoscimento di patrimonio dell’umanità. 

«Nel 2010 l’Unione europea ha concesso alla pizza napoletana lo status di Specialità tradizionale garantita (Stg)» scrive l’Economist nella rubrica Charlemagne, dedicata ai temi europei, ironizzando sul disciplinare che stabilisce i criteri di lievitazione della pasta, le dimensioni e lo spessore, oltre al metodo di cottura, vale a dire nel forno a legna (ecco il file immagine dell’articolo). Gli inglesi fingono di non sapere (lo spero vivamente per loro) che i disciplinari sono studiati proprio per proteggere le specialità alimentari dalle imitazioni grossolane, destinate a ingannare i consumatori. Imitazioni in cui tutto il mondo anglosassone eccelle. «Non è un caso», leggo ancora nell’articolo, «che l’Italia sia lo Stato più assiduo nel rivendicare le indicazioni geografiche, si tratti della rigorosa Denominazione d’origine protetta (ad esempio il Chianti Classico) o la meno efficace Indicazione geografica protetta…». Ed è qui che casca l’asino, nel senso letterale del termine. Il Chianti Classico non è una Dop ma una Docg, vale a dire una Denominazione di origine controllata e garantita. Confondere i due sistemi di protezione significa non aver capito nulla. E non sapere nulla del sistema che regola le indicazioni geografiche. 

The Economist pizza

Di più: secondo The Economist, Dop e Igp altro non sono se non un sistema per «dare un contentino alle lobby degli agricoltori, colpite dai tagli ai sussidi». Così, e qui volevano arrivare gli illuminati analisti britannici, «l’Italia tradisce un protezionismo innato: anziché competere sui mercati globali, i produttori vogliono difendere il loro “partimonio” e chiedono aiuto all’Europa. Ma così si complicano gli accordi commerciali come accade quando la Ue vuol impedire ad altri di utilizzare termini come feta». Per finire con l’argomentazione tanto cara ai negoziatori americani del TTIP, il Trattato Transatlantico: «Il valore delle indicazioni geografiche non è dimostrato». Guardacaso le stesse tesi amplificate dal Consortium for common food names, espressione della lobby americana dei taroccatori di formaggi made in Italy.

Forse ai britannici brucia ancora che Italia e Francia, attraverso l’Unione europea, li abbiano costretti a rinunciare all’etichetta a semaforo che bocciava Dop e Igp per promuovere gli alimenti globalizzati. Comprensibile ma non giustificabile. Per cercar di smontare il sistema delle indicazioni geografiche bisogna conoscerlo.La critica è accettabile qualora sia documentata. Diversamente puzza troppo di attacco strumentale.

 

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