La carta che ha ucciso il Made in Italy: così l’Europa proibisce la tracciabilità

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Dopo mesi di ricerche sono riuscito a mettere le mani sul « parere circostanziato» con cui la Commissione Ue ha detto no all’etichetta «100% Italia» e alla tracciabilità di filiera per gli alimenti più diffusi fra quelli che portiamo in tavola ogni giorno. Nel distruggi documenti di Rue de la Loi 130 sono finite, nell’ordine, la legge sull’etichettatura volontaria «100% Italia» e quella, approvata nel 2011 ma messa in movimento due anni prima dall’allora ministro Luca Zaia sulla trasparenza delle filiere.

Sul paradosso di un provvedimento tenuto segreto per oltre sette anni ho già scritto (ecco il post). Ora vorrei approfondire i contenuti del parere. Le motivazioni, rimaste top secret per sette anni e in base alle quali non siamo in grado di capire da dove provengano i cibi che mangiamo. Ebbene, il cuore del provvedimento si trova nel passaggio con cui (Punto 1,  commi 1 e 2) Bruxelles spiega perché la tracciabilità rappresenta una «misura restrittiva» alla libera circolazione delle merci all’interno del mercato unico europeo. In violazione degli articoli 28-30 del trattato Ce. Ecco il ragionamento utilizzato nel 2005 per affossare la norma appena approvata dal Parlamento italiano: «Il sistema del marchio [100% Italia], introdotto per promuovere la commercializzazione di prodotti realizzati interamente in Italia e il cui messaggio pubblicitario sottolinea l’origine italiana dei prodotti interessati, può indurre i consumatori ad acquistare i prodotti che recano il marchio “100% Italia”, escludendo i prodotti importati». Davanti al bancone del supermercato, avendo di fronte due prodotti simili, uno marcato 100% Italia e l’altro anonimo e del tutto opaco come tracciabilità e origine, il consumatore può essere indotto ad acquistare quello trasparente… E questo, secondo i Soloni della Commissione rappresenta un ostacolo alla libera circolazione delle merci!
LA CORTE DI GIUSTIZIA. Ma c’è dell’altro. L’Eurogoverno  – vi confesso che mi fa un po’ impressione definirlo così – per supportare il no all’etichetta trasparente utilizza alcune sentenze della Corte di Giustizia europea. In particolare una del 1975 in cui il tribunale della Ue stabilisce un principio a dir poco discutibile:  «per l’acquirente non è necessario sapere se un prodotto abbia o meno un’origine precisa, a meno che detta origine non implichi una determinata qualità, particolari materie prime di base o un determinato procedimento di fabbricazione o, ancora, un certo ruolo nel folclore o nella tradizione della regione di cui trattasi». Vi confesso che mi viene la pelle di cappone nel constatare che un’istituzione chiamata a giudicare su principi alti, si permette di decidere unilateralmente cosa sia necessario sapere oppure no. Non sono un costituzionalista ma ci vuol poco a capire che i magistrati di Lussemburgo, così facendo, entrano in conflitto con uno dei diritti fondamentali dell’individuo: quello di essere informato.
Siccome la tracciabilità e la trasparenza potrebbero danneggiare i prodotti opachi e «reticenti» (mi vien da pensare alle lasagne alla carne di cavallo), allora si dica no alla tracciabilità. E questo è in sostanza quanto è accaduto. Scrive infatti la Commissione europea: «La Corte ha considerato che, se i prodotti in questione non rispondono a queste condizioni, il marchio d’origine non è giustificato e avrebbe, di  conseguenza, “carattere manifestamente discriminatorio”».  Tanto è acclarato il principio che a un consumatore non deve interessare da dove provenga quel che porta in tavola. Come hanno stabilito i giudici del Lussemburgo con la sentenza del 20 febbraio 1975.

Ripeto quanto ho scritto nel post precedente: tutto questo puzza maledettamente di soviet. Atteggiamenti di questo genere erano la normalità nell’Urss dove a decidere cosa fosse lecito pensare lo stabiliva il Politburo del Partito comunista. Che poteva contare, fra l’altro, su tribunali totalmente asserviti all’ideologia dominante. Un organismo, sia pure sovranazionale, la cui Corte suprema arrivi a decidere cosa debba interessare o meno ai cittadini è l’antitesi della democrazia. Ma è con queste argomentazioni che Bruxelles ci ha bocciato, nell’ordine,  l’etichetta «100 Italia» – era il 2005 – e più di recente la legge Zaia sulle filiere trasparenti. Ogni ulteriore commento è superfluo. Ora però capisco perché il «parere circostanziato» che ha affondato la tracciabilità, è stato secretato.

[2-continua]
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2 COMMENTS

  1. Complimenti per l’articolo. Ci siamo permessi di riprendere la notizie per dare maggiore enfasi.
    Newsfood.com è una testata giornalistica che si occupa prevalentemente di agroalimentare ma anche di truffe, di angherie.
    In qualità di direttore, mi piacerebbe poter avere qualche tuo articolo/approfondimento.
    Buona giornata.
    Possiamo vederci a Vinitaly?

    Notizie relative a etichettatura europa

    Solo una questione di Etichettatura alimentare? No, è sicuro, per l’Europa siamo figli di un Dio Minore

    Attilio Barbieri, un giornalista con le palle, ha scoperto ciò che doveva restare segreto. E noi cosa aspettiamo a riprederci la nostra LIRA?

  2. Solo una questione di Etichettatura alimentare? No, è sicuro, per l’Europa siamo figli di un Dio Minore

    NEWSFOOD.com ‎- 9 ore fa
    Attilio Barbieri, un giornalista con le palle, ha scoperto ciò che doveva restare segreto. E noi cosa aspettiamo a riprederci la nostra LIRA?

    Grazie per l’articolo. Ci siamo permessi di prendere spunto e divulgarlo nel web. (verrà inserito nella ns prox newsletter – 40.000 destinatari).
    Newsfood.com+WebTV si occupa prevalentemente di agroalimentare, di made in Italy, ma anche di truffe, di angherie, di imprenditori costretti al suicidio…
    In qualità di direttore della testata giornalistica, mi piacerebbe poter avere qualche tuo articolo inedito o approfondimento, a tuo piacere.
    Possiamo incontrarci al Vinitaly per una video-intervista?
    Giuseppe Danielli info(at)newsfood.com

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