I pastai: usiamo grano non italiano, ma mettiamo lo stesso il tricolore

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Ricordate l’indagine del Corpo Forestale dello Stato sulla Pasta Divella col tricolore? Me ne sono occupato in un post del 29 luglio scorso. Ora c’è una novità: Francesco Divella, rispondendo a un quesito lanciato di colleghi del Fatto Alimentare ha lanciato la controffensiva: la pasta pugliese è sì composta con miscele di «grani nazionali (50/60%), canadesi, australiani e americani», ma rivendica il diritto di utilizzare in etichetta il tricolore, in base «all’articolo 24 del Regolamento Ue  2913/92, che istituisce il Codice Doganale Comunitario: “Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione». Tale norma», puntualizza Divella, «è stata ribadita nell’art. 36 del Regolamento comunitario n.450/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 che istituisce il codice doganale aggiornato».
Il ragionamento non fa una grinza. Peccato però che esista una legge italiana, la nr. 134 del 7 agosto 2012 (articolo 4, commi 49 e 49-bis) che vieta espressamente di dichiarare un’indicazione d’origine falsa anche attraverso «l’uso di segni, figure o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana». Ed è in base a questo provvedimento che la Forestale ha messo sotto inchiesta la Divella.
Più o meno dello stesso tenore è l’intervento sempre su Il Fatto Alimentare, di Giovanni Alleonato, direttore marketing della De Cecco, il quale contesta «il fatto che la bandiera italiana e la dicitura “made in Italy” implichino automaticamente che tutte le materie prime (e non solo il prodotto finito) debbano essere 100% italiane». Secondo Alleonato «è soltanto una possibile interpretazione che non si ricava dalla lettura della normativa».  Ancora più interessante è la spiegazione che il manager della De Cecco dà del nastrino tricolore, sormontato dalla scritta “Made in Italy” visibile sulle confezioni della pasta di Fara di San Martino: «La scritta è semplicemente “Made in Italy” (che vuol dire “prodotto in Italia” e che per un prodotto trasformato è sinonimo di “trasformato in Italia”), non invece “100% italiano” e nemmeno “prodotto italiano”». Forse è #italianomanontroppo, per utilizzare un hashtag in stile Twitter.
Dunque la morale è questa: per capire se quanto stiamo mettendo nel carrello è italiano (nel senso di fatto in Italia con materie prime nazionali) oppure no, non possiamo più basarci sull’eventuale tricolore presente nella confezione. E la scelta diventa sempre più difficile.

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