La finta coppa venduta da Parmacotto a New York con l’aiuto della Simest: il tarocco continua

0
723

Il caso Simest, la finanziaria pubblica (è controllata al 67% dal Ministero dello Sviluppo Economico), non è ancora chiuso. Lo scorso mese di marzo il titolare del dicastero Corrado Passera ha inviato alla export bank una dettagliata direttiva in cui indica l’assoluta necessita di contrastare ed evitare la pratica dell’italian sounding (il falso Made in Italy) da parte di imprese che, per le proprie iniziative sui mercati esteri, usufruiscono di un supporto pubblico. «E’ necessario assicurare l’obiettivo di una corretta e trasparente informazione al consumatore circa l’origine delle produzioni estere – scriveva Passera – evitando che elementi specifici dei prodotti o del relativo packaging possano trarre in inganno circa l’origine italiana dei medesimi». L’iniziativa dell’ex amministratore delegato di Banca Intesa ha chiuso la polemica su un caso clamoroso di falso pecorino prodotto in Romania dai fratelli Pinna col marchio Lactitalia, ma che di italiano non ha proprio nulla. Simest partecipava all’operazione attraverso la Roinvest, una finanziaria dei fratelli Pinna cui fa capo l’intero capitale della società romena. La direttiva recapitata alla merchant pubblica guidata da Giancarlo Lanna (presidente) e Massimo D’Aiuto (amministratore delegato) era chiarissima. La Simest, scriveva Passera, deve «far si che, mediante opportuni interventi ordinamentali o organizzativi,
gli atti relativi a partecipazioni deliberate a favore delle imprese operanti nel settore agroalimentare siano revocati» nel caso in cui le societa attivino pratiche commerciali tali da indurre in errore i consumatori sull’origine o sulla provenienza dei prodotti.
Era il caso di Lactitalia ma pure di un’altra società, la Salumeria Rosi Parmacotto, che commercializza prodotti italiani o presunti tali (molto presunti) in alcune delle più grandi città al mondo inclusa New York. E proprio lo store nella Grande Mela, al 283 di Amsterdam Avenue, offre un campionario molto vasto di finti prodotti italiani, come dimostra l’offerta di vendita online raggiungibile a questa pagina web. Coppa, finocchiona, pancetta, guanciale, cacciatorini, salame calabrese, sopressata, salame toscano. Certo è indicato che si tratta di salumi «made in Usa», ma allora perché utilizzare le denominazioni italiane? La pratica dell’italian sounding sfrutta proprio questo meccanismo per indurre il consumatore ad acquistare un prodotto che di italiano non ha nulla. Neppure l’incarto, la confezione.
Da quel che risulta a Etichettopoli, la Simest è tuttora presente nel capitale della società (Salumeria Rosi Parmacotto) che gestisce direttamente o in franchising i punti vendita, incluso quello a New York: me lo ha confermato un portavoce della merchant bank pubblica rispondendo a una mia precisa richiesta di chiarimento.
Ora mi pongo le seguenti domande: non è anche questo un caso che rientra nella direttiva emanata da Passera? E allora cosa aspetta la Simest a uscire pure dal capitale di questa società? Di più: a quante altre iniziative partecipa la merchant pubblica italiana che utilizzano pratiche commerciali scorrette?
Prevengo l’obiezione che Lanna e D’Aiuto mi fecero quando scrissi sul quotidiano Libero di Lactitalia: so bene che la Salumeria Rosi Parmacotto non viola le leggi statunitensi e quindi non rischia nulla in Usa dal punto di vista legale. Resta l’amaro in bocca però, quando scopri che i paladini del Made in Italy ricorrono a società “italo vestite” per approfittare dei nostri prodotti e dell’immagine positiva del brand Italia nel mondo.
E vale la pena pure di chiedersi cosa sia davvero il Made in Italy. Bastano le tecnologie e i nomi italiani, come sostiene la Federalimentare, per dire che si tratti di un prodotto italiano? Allora prepariamoci a dare la patente di italianità anche ai salumi che Beretta va a produrre in Cina. Ma non si era detto che il successo delle nostre specialità legate ai territori è l’unica strada per rilanciare il sistema-Italia nel mondo? Qualcuno spieghi ai vigneron e alle cantine italiane che stanno solto sprecando tempo ostinandosi a produrre il vino nello Stivale. Perché non piantano un po’ di viti in Russia, Cina e Stati Uniti e vinificano direttamente in quei Paesi? Sai quanti soldi potrebbero risparmiare! A quel punto, però, tanto vale gettare alle ortiche tutto il sistema delle Doc (denominazione di origine controllata) e delle Dop (origine protetta). E non pensarci più. E’ questo che vogliamo?


PS – A questo link è scaricabile il pezzo che pubblicai su Libero a proposito della vicenda Lactitalia e la lettera di “smentita” che la Simest inviò al direttore Maurizio Belpietro rivendicando la correttezza dell’operazione. Vi confesso che le affermazioni di Lanna e D’Aiuto, rilette ora, hanno per lo meno del paradossale. Aspetto la prossima “smentita” a questo post di Etichettopoli.
Print Friendly, PDF & Email

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here