Le etichette reticenti diventano mute. Breve guida all’acquisto sostenibile

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Le etichette con cui abbiamo a che fare tutti i giorni sono per lo più reticenti. Raccontano tanto per non dire nulla. E quand’anche lo fanno nascondono sapientemente le informazioni che i consumatori gradirebbero conoscere. A cominciare dalla provenienza dei cibi che portiamo in tavola. Ma l’attuale generazione di etichette che ho battezzato «reticenti» si appresta a lasciare il passo a una nuova versione: le etichette mute. Dal 13 dicembre, infatti, entra il vigore un regolamento europeo approvato nel 2011 che consente di omettere l’indicazione dello stabilimento di produzione o trasformazione. Così, se si escludono Dop e Igp, i prodotti a denominazione d’origine, tutto il resto potrà essere prodotto e confezionato all’estero, importato e messo in vendita come  made in Italy. Tutto senza violare alcuna disposizione di legge.
VINCE L’OPACITA’ TOTALE. Grazie a una norma che pare studiata a tavolino per agevolare i delocalizzatori (e forse il suo scopo è proprio questo) perderemo uno degli legami residui che collegano il made in Italy all’Italia: la fabbrica dove avviene l’ultima trasformazione. Il meccanismo si applica a decine di migliaia di referenze. Può valere per tutti l’esempio della pasta, il prodotto per eccellenza della dieta italiana. I pastai potranno produrla in qualunque parte del mondo, utilizzando – cosa che già fanno ampiamente – farina di grano duro canadese, americana o ucraina. Poi, una volta essiccati e confezionati, spaghetti, maccheroni e penne potranno essere comodamente importati in Italia a messi in vendita nei soliti canali, dai supermercati ai negozi di vicinato. Sulla confezione non ci sarà traccia di quanto è accaduto prima del loro sbarco nel Belpaese. Nulla sull’origine della materia prima, niente sullo stabilimento di trasformazione. Sarà sufficiente che sulla confezione venga indicata chiaramente l’azienda responsabile delle informazioni contenute in etichetta. Che guardacaso avrà sede in Italia.
PORTE SPALANCATE AI DELOCALIZZATORI. In virtù di questo meccanismo i consumatori non saranno più sicuri di nulla e la sostenibilità sociale delle filiere è destinata a incassare l’ennesimo colpo durissimo. Se finora hanno sofferto soprattutto i produttori di materie prime, allevatori e agricoltori, ora la delocalizzazione alimentare è destinata a colpire la fase della trasformazione. Nulla trattiene più le industrie di trasformazione, grandi e piccole, dallo spostare nei Paesi a basso costo della manodopera e con una burocrazia leggera, quel che rimane del made in Italy. Non farebbero nulla di illegale. E, soprattutto, i consumatori non lo verranno mai a sapere.
Mi sono posto però il problema di anticipare cosa potrà succedere sui banconi dei supermercati. Cosa cambierà in termini di tracciabilità e trasparenza? Riusciremo a capire la provenienza degli alimenti che acquistiamo? Ecco il risultato che ho riassunto in una breve guida all’acquisto, in cui elenco le principali categorie merceologiche. Nella galleria fotografica che illustra il post ho condensato con un simbologia grafica elementare cosa si possono aspettare i consumatori.

PANE. Non è prevista alcuna tracciabilità Se si eccettuano alcuni casi con accordi fra produttori agricoli locali e fornai (valga per tutti l’esempio del pane piacentino) l’alimento più antico alo mondo è anche uno dei  più opachi fra quelli che mangiamo. Probabilmente sono destinate a crescere le importazioni di pani surgelati destinati alla cottura rapida in arrivo dai Paesi dell’Europa orientale. Romania su tutti.

SALUMI. Ed esclusione delle Dop (Denominazione di origine protetta) e delle Igp (Indicazione d’origine protetta) prosciutti, coppe, pancette e salami potrebbero arrivare da ogni parte d’Europa. I casi di salumi a filiera trasparente, al di fuori delle denominazioni, sono rarissimi. Occhio all’etichetta!

SOTTACETI. Non c’è alcun vincolo a dichiarare l’origine delle verdure utilizzate. Alcuni produttori lo fanno spontaneamente. Non lasciatevi trarre in inganno dalle marche di fantasia. Sul blog ho descritto un caso clamoroso: i peperoncini Montalbano (ecco il post) che con il celebre commissario e con la Sicilia non hanno nulla a che vedere, visto che provengono dall’Indonesia.

 PASTA.  L’elemento principe della dieta tricolore potrebbe essere fatto a migliaia di chilometri di distanza dal Belpaese. La materia prima spesso arriva dall’Ucraina, dal Canada o dagli Stati Uniti. Nonostante una indagine del Corpo Forestale dello Stato a carico della pasta Divella (qui la notizia), accusata di utilizzare la bandiera italiana anche in presenza di materia prima d’importazione, nulla è cambiato. Fortunatamente molti brand di nome, come Voiello (Barilla),  alcune catene della grande distribuzione, come Coop e Finiper e storici marchi del settore (Granoro e Ghigi) hanno messo in commercio linee fatte a partire da materia prima nazionale. Se volete consultare una selezione delle paste tutte italiane potete visitare il blog che pubblico sul tema, Italiano100per100.it. Mi dispiace citarmi ma è il mezzo più veloce per trasmettervi le indicazioni che possono servire.

RISO. Identico discorso della pasta. Anche in questo caso vale la regola aurea: la marca italiana non è sinonimo di prodotto italiano.

 SUGHI & PASSATE. Per i primi non c’è alcuna certezza sull’origine della materia prima. Le passate, invece, devono indicarla chiaramente in etichetta. Basta uno zero virgola, ad esempio di basilico, per trasformare una passata in un sugo di pomodoro e affrancarla dall’obbligo di dichiarare la provenienza. Non mancano, naturalmente, le eccezioni che segnalano con buona evidenza l’italianità e la tracciabilità. Spesso, però, questi sughi occupano le posizioni meno in vista sui banconi dei supermercati. Bisogna avere la pazienza di cercarli.

 BURRO. Non esistono prescrizioni vincolanti. Vale la solita regola: in assenza di indicazioni sull’origine  c’è una probabilità molto elevata che quel prodotto non sia italiano.

OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA. E’ una delle rare merceologie per le quali i produttori  sono vincolati a indicare il Paese di provenienza delle olive o dell’olio. Purtroppo fatta la legge (italiana) è arrivato il regolamento (europeo) a limitarne gli effetti. Le nostre norme prevedevano che sull’etichetta venisse indicata addirittura la zona di raccolta delle olive. Bruxelles ha consentito invece di poter scrivere la dicitura generica “olio extravergine comunitario”. Che non vuol dire nulla. Negli ultimi  tre anni però anche produttori tradizionalmente poco attenti all’origine hanno messo in vendita degli extravergine a filiera trasparente. Da un’indagine che ho svolto con centinaia di interviste risulta che meno di due consumatori su 10 riescono a individuare l’olio italiano. Mai dare per scontato che l’olio acquistato per decenni sia italiano. Basta ruotare la bottiglia (o la lattina) e leggere fra le scritte stampate in carattere piccolo. Lì c’è scritta la verità.

 FORMAGGI. Tolte le Dop per il resto c’è poco da stare allegri. Quelli a pasta molle, in particolare, possono essere ottenuti con latte o cagliate (talvolta surgelate) provenienti magari dai Paesi baltici.  Se si escludono le denominazioni d’origine non esiste alcun obbligo per il produttore. Quindi dalla lettura dell’etichetta si ricava poco o nulla. Fanno eccezione alcuni stracchini che puntano proprio sull’italianità del latte. Non sono molti ma si può sempre provare a cercarli. Attenzione al tricolore: da solo non è indice di italianità del prodotto.

CARNI. Su quella bovina e sul pollo è obbligatorio indicare il Paese in cui in capo è nato ed è stato allevato. Questa insolita trasparenza la dobbiamo, rispettivamente, al morbo della mucca pazza e all’aviaria. Per le carni suine, invece, non c’è certezza né obbligo alcuno. Sugli scaffali refrigerati dei supermercati,  i tagli italiani sono spesso mischiati a quelli d’importazione. Un’occhiata in più all’etichetta non fa mai male.

 PESCE. In teoria la filiera dovrebbe essere tracciabile. In pratica le indicazioni non consentono di identificare sempre e con facilità la zona di pesca. La stessa specie, poi, può arrivare indifferentemente dall’Adriatico o dall’Oceano Pacifico. I prezzi e naturalmente la qualità cambiano.

UOVA. Fortunatamente ne importiamo ancora poche, perché accade anche che per verificarne la provenienza si debba aprire la confezione.

SCATOLAME. Mai come per le scatolette vale la regola: leggi e sai quel che mangi. Come per gli otto decimi dei prodotti in vendita non c’è vincolo alcuno. Fortunatamente negli ultimi anni alcuni produttori storici di carne in gelatina, hanno introdotto linee di prodotto a filiera tracciabile (ecco un esempio). Siccome si riconoscono facilmente, vale la pena di perdere qualche secondo in più per cercarle sul bancone del supermercato.

LATTE. L’obbligo di dichiarare l’origine vale solo per quello fresco. Gli altri sono quasi sempre d’importazione. Nell’assortimento di norma è quasi sempre presente anche latte Uht italiano. Se non lo vedete chiedete al personale del punto vendita: magari è in una posizione poco visibile.

CIOCCOLATO, GELATI, MERENDINE E BISCOTTI. Quello dei dolci è probabilmente uno dei comparti merceologici meno trasparenti. Le eccezioni sono legate quasi esclusivamente a prodotti del territorio. Pure in questo caso occhio a coccarde, nastri e bandierine tricolori: possono non significare nulla.

ORTOFRUTTA. Vige l’obbligo della massima trasparenza. Anche per i prodotti sfusi a bancone  c’è il vincolo di scrivere il Paese di provenienza. La Grande distribuzione è bene attrezzata per rendere riconoscibile lo Stato e spesso la zona di coltivazione. Sui mercatini ambulanti questo può non accadere. In assenza di indicazioni chiare cambiate banco.

SURGELATI. Hic sunt leones. Una specie di terra di nessuno. Ho incontrato spesso confezioni con richiami espliciti allo Stivale, nomi che evocano zone ben precise o marchi a forte connotazione localistica, ma che con la nostra terra non c’entrano nulla. In questo caso non basta la massima cautela. Personalmente seguo questo principio: dal minestrone in giù tutto quel che posso cucinare a partire da verdura fresca e di stagione lo sostituisco al surgelato. Negli altri casi evito di mangiarlo.

MIELE. Resta in vigore l’obbligo di trasparenza. Nel retro della confezione c’è scritto tutto. Brand italianissimi utilizzano però mieli sudamericani o cinesi. La marca italiana non significa che il prodotto della fatica delle api arrivi dal Belpaese. Controllare sempre.

CODICE A BARRE. Non diceva nulla prima. Dal 13 dicembre racconterà ancor meno. Finora la decodifica portava al proprietario (italiano) del marchio. Col nuovo regolamento europeo la lettura del codice “svelerà” il responsabile delle informazioni scritte sulla confezione. Meno di così…

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