L’Indicam si indigna per il no alla legge antipirateria, ma dimentica il finto made in Italy

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L’Indicam, l’istituto di Centromarca che si occupa di lotta alla contraffazione, si indigna per la bocciatura delle norme che fra l’altro avrebbero obbligato provider e siti internet a svolgere il compito di gendarmi della verità e assegnavano alle imprese e in genere ai soggetti forti grandi poteri di interdizione sui contenuti pubblicati sul Web. La norma in questione è l’articolo 18 della Legge comunitaria 2011, un provvedimento omnibus destinato a convertire in legge le indicazioni vincolanti della Ue. Ebbene, l’articolo 18, emendato in senso ancora più restrittivo rispetto alla bozza iniziale, era stato etichettato come «bavaglio al Web». Non voglio addentrarmi nella polemica su cui sono stati scritti fiumi di parole. Mi interessa però la posizione espressa dall’Indicam, riassunta in una lettera inviata dal presidente Carlo Guglielmi al governo. «L’industria», scrive Guglielmi, «vede i propri bilanci messi in pericolo dalla contraffazione che l’attuale regime di esenzione di responsabilità a favore dei fornitori di accesso (a internet, ndr) oggettivamente favorisce». Il messaggio con cui è stato diffuso il comunicato era intitolato: «Appello al governo per il made in Italy». 
In effetti l’Indicam ha ragione, ma non tanto per siti e portali. Il falso made in Italy ci porta via 60 miliardi l’anno di ricchezza: tre leggi salva-Italia. Peccato però che Confindustria, cui aderisce la «mamma» di Indicam, vale a dire Centromarca, si opponga con ogni mezzo alla tracciabilità dei prodotti messi in vendita. La dichiarazione d’origine viene osteggiata come l’eresia ai tempi dell’Inquisizione. Pare perfino che quanti la chiedono facciano il male del nostro Paese.
La verità è un’altra: se è giusto tutelare i marchi e la proprietà intellettuale dalle falsificazioni è ugualmente giusto difendere il lavoro necessario per produrre il vero made in Italy. Spostare all’estero la fabbricazione di un bene oppure acquistare un semilavorato da un altro Paese e spacciarlo poi per italiano, oltre a rappresentare un furto di identità, ci sottrae valore, ricchezza, sotto forma di lavoro non svolto sul suolo del nostro Paese.
Se non fosse così vorrebbe dire che gli investimenti, i capitali e il valore – in definitiva i soldi – che si riassumono in un marchio hanno il diritto di essere difesi. Il lavoro no. C’è però un dettaglio piccolissimo ma non trascurabile: spostare fuori il lavoro significa perdere ricchezza. Perdere Pil, il Prodotto interno lordo, su cui si misura il deficit di un Paese e la sua credibilità internazionale. Si dirà: gli imprenditori vanno all’estero per abbattere i costi, altrimenti non sarebbero più competitivi. E nessuno può impedire loro di delocalizzare le fabbriche o acquistare materie prime e semilavorati sui mercati esteri. Abbiano però il coraggio di scriverlo sull’etichetta da dove arriva ciò che ci vendono. Il falso made in Italy ci danneggia quanto il finto made in Italy. Con una differenza sostanziale: i finti prodotti «fatti in Italia» fanno arricchire alcuni italiani (pochissimi) a danno di tutti gli altri. E’ giusto indignarsi per la pirateria commerciale. Ma l’indignazione non può essere a corrente alternata.

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