Loro Piana, la globalizzazione e le palle mondiali

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Alla fine i francesi si sono mangiati un altro pezzo del made in Italy di pregio, la Loro Piana di Quarona, Vercelli. Il gigante del lusso Lvmh guidato da Bernard Arnault ha acquisito la partecipazione di maggioranza dello storico marchio del cashmere, fondato sei generazioni fa dai bisavoli di Sergio e Pier Luigi Loro Piana. Gli ultimi proprietari italiani. Il gruppo nato come Louis Vuitton ha sborsato la cifra monstre di due miliardi di euro. E l’affare è ultimo di una lunga serie che ha portato il controllo di numerosi marchi della moda made in Italy alla scuderia di Arnault: Pucci, Fendi, Acqua di Parma, Bulgari e la pasticceria Cova, storico locale milanese di via Montenapoleone, con cui però c’è un contenzioso con Prada.
È la globalizzazione, bellezza, tuonano i campioni di liberismo che da noi però funzionano a corrente alternata. Nel senso che lo sono quando di tratta di fare i conti col portafoglio degli altri, mentre con il loro sono iperprotezionisti. In realtà è difficile dire quanto di veramente italiano ci sia nella produzione delle griffe della moda. Non parlo naturalmente di Loro Piana che si colloca in una nicchia altissima e che fa di qualità ed esclusività il proprio punto forte. È proprio nel mondo del fashion che il concetto di «fatto in Italia» ha perso di significato. Ci sono griffe che hanno delocalizzato quote crescenti della produzione e ora il primo dei loro problemi è come evitare che le manifatture sparse in Estremo Oriente in cui fanno eseguire le lavorazioni, esportino verso l’Italia un’extraproduzione rispetto ai capi che consegnano al committente italiano. L’ultimo ritrovato per contrastare queste importazioni parallele è una sorta di etichetta elettronica intelligente che viene cucita sul «tarocco ufficiale» per distinguerlo dal «tarocco parallelo». In realtà, nessuno di questi capi è made in Italy ma gli stilisti e gli scarpari di mezza Italia fanno finta di non saperlo. E, anzi, si arrabbiamo quando i falsificatori cinesi, vietnamiti e indiani da cui si servono producono un po’ di più rispetto all’ordine e piazzano per conto loro sui nostri mercati i finti prodotti italiani.
Il senso ultimo della globalizzazione è ben rappresentato in una infografica che ho ricevuto dalla Warwick Business School di Coventry, Gran Bretagna, che ha ricostruito la strada compiuta dalle palline da tennis (e dai materiali utilizzati per costruirle) impiegate al torneo di tennis di Wimbledon. Ebbene le palle piovute sulla racchetta dello scozzese Andy Murray (primo britannico a vincere sull’erba del Centre Court dal 1936) hanno compiuto 50.570 miglia, circa 81.383 chilometri. L’ultimo viaggio, da prodotti finiti, è durato «appena» 10.600 chilometri, da Bataan, nelle Filippine, dove c’è la fabbrica delle palline, a Londra. Lavoro encomiabile quello svolto dal professor Mark Johnson, della Warwick University che dimostra l’essenza della globalizzazione. E se provassimo a ripetere il gioco anche per i capi firmati delle griffe italiane?
Dimenticavo: le tennis ball di cui parliamo vengono da uno storico produttore britannico, la Slazenger che all’inizio del decennio 2000 ha chiuso la fabbrica di Barnsley per delocalizzare nelle Filippine. È la globalizzazione, bellezza!

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