Ma Montezemolo & C. possono decidere le sorti del Made in Italy?

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Parlare e straparlare di Made in Italy. Tutto sta a capire cosa sia davvero. Cosa voglia dire.
Fatto in Italia? Prodotto con una “ricetta” italiana? Pensato in Italia? Nelle risposte a queste semplici domande sta il futuro della nostra agricoltura ma anche del calzaturiero, del tessile, dell’abbigliamento.
In queste settimane che ci trasferiscono da una primavera bizzosa e al contempo indecisa (ma forse è sempre stato così) verso un’setate carica di dubbi, registro due fatti che possono riguardare il “fatto in Italia”. Possono. Ma non so fino a che punto.
Mercoledì 4 maggio è arrivato l’ennesimo annuncio del ministro dell’Agricoltura Francesco Saverio Romano che da Palermo tuonava: «Oggi tanti Paesi nel mondo producono, ma senza le regole seguite da alcuni Paesi europei come il nostro: se in Italia procediamo con l’etichettatura devono farlo anche gli altri». Qualcuno spieghi al ministro nell’ordine, che:

  1. di fatto siamo l’unico Paese della Ue ad aver approvato una legge sull’etichettatura d’origine;
  2. ci aveva provato anche la Lettonia, ricondotta però a miti consigli dal potentissimo commissario Ue alla Salute John Dally;
  3. la legge sull’etichetta parlante l’ha approvata il Parlamento italiano il 18 gennaio scorso, ora mancano solo i decreti attuativi filiera per filiera: sta a lui convocare i tavoli di confronto con tutti gli attori delle singole filiere. Lo faccia.

In attesa di capire se e quando Romano  si deciderà ad andare oltre gli annunci, c’è da registrare la convocazione di un “pensatoio” sul Made in Italy. A diramare gli inviti la multinazionale della consulenza Kpmg. L’appuntamento è per sabato a Montepulciano…. Attenzione ai facili entusiasmi, però. A trovarsi nel verde della campagna senese non saranno né agricoltori né allevatori, bensì alcuni dei personaggi che animano la scena politica ed economica italiana. Giannni Letta e Paolo Romani per il governo eppoi un pezzo glamour dell’imprenditoria italiana, come riferisce La Stampa: Luca Cordero di Montezemolo, Nerio Alessandri di Technogym, Diego Della Valle e le storie di successo di Barilla e della Brembo di Bombassei, vicepresidente di Confindustria con delega alle relazioni industriali.
Insomma, un Made in Italy da salotto. Non me ne voglia Bombassei che dell’allegra combriccola è forse l’unico che per fare il Made in Italy si è sporcato le mani di grasso, attorno alle sue catene di montaggio. Concedendogli però di poter etichettare come “italiani” i prodotti che escono dagli stabilimenti Brembo sparsi in tutto il mondo.
Già, perché qui, nella scelta della Kpmg, sta il grande, mastodontico equivoco che segna il “fatto in Italia” negli ultimi decenni. Si può definire come tale un prodotto ottenuto da manodopera e materie prime italiane, oppure basta che sia stato “pensato” in Italia? Piegando alle esigenze di business tutto il resto, l’industria ha sposato questa seconda “vision”. Snaturando così una tradizione bimillenaria e troncando alla radice il legame fra un prodotto e la sua terra. Oltre a esportare le tecnologie per produrre il Made in Italy fuori dai nostri confini, gli industriali però hanno esportato pure il lavoro.
Mi affligge da tempo un dubbio: visto che la ricchezza si crea al di fuori dell’Italia chi comprerà mai i manufatti “pensati in Italia” ma realizzati all’estero? Auguro a questi profeti dell’italianità sradicata di riesportare sui mercati mondiali tutto quel che vogliono vendere. Il mercato interno langue? I commerci non decollano? Abbiano almeno il pudore di non lamentarsene.
Infine mi assale un dubbio: non sarà per caso tutta una scusa l’incontro di Montepulciano, per lanciare la discesa in politica di Montezemolo?

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