Mediobanca svela il trucco: su 100 euro di made in Italy 67 sono prodotti all’estero

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Il 67% dei soldi incassati dalle aziende italiane per la vendita di prodotti made in Italy in realtà riguarda produzioni realizzate interamente all’estero e vendute all’estero. Che il Belpaese non lo hanno visto neppure in fotografia. Il dato esce da una corposa indagine  di Mediobanca intitolata «Dati cumulativi di 2050 società italiane», nello stile tradizionalmente minimalista della merchant milanese fondata da Enrico Cuccia. Nel paragrafo intitolato «Attività italiane ed estere» si legge:

L’indagine è basata sull’aggregazione dei dati di bilancio di 2050 società con sede in Italia e non vi rientrano quelle da esse controllate con sede fuori dai confini nazionali. Si stima che i maggiori gruppi manifatturieri italiani con organizzazione multinazionale abbiano realizzato nel 2013 ricavi domestici pari al 9% del giro d’affari complessivo. La quota estera (91%) è derivata per il 24% da attività esportativa e per il 67% dalle vendite di insediamenti ubicati oltre frontiera (“estero su estero”).

Poche righe, in tutto 432 caratteri, su 169 pagine di studio. Ma è su queste frasi che si è concentrata l’attenzione dei media. Non tanto sulle conclusioni del minuzioso lavoro d’analisi svolto dall’ufficio studi di Piazzetta Cuccia che documenta fra l’altro la perdita di competitività del nostro sistema produttivo. No, a guadagnarsi l’onore dei titoli, pur fra qualche stiracchiatura di zelanti compilatori delle prime pagine, è stato un solo dato: su 100 euro di made in Italy, ben 67 vengono prodotti all’estero. Ventiquattro sono frutto di veri prodotti italiani esportati e soltanto 9 di manufatti fabbricati nella Penisola e venduti sul nostro mercato interno.

In verità pochi giornali hanno capito la portata di questi tre-numeri-tre: semplificando, su 100 prodotti venduti nel mondo come made in Italy 67 non hanno nulla di italiano, probabilmente neppure l’etichetta. Oltre alla falsificazione (perché di questo si tratta) il fenomeno è legato alla delocalizzazione produttiva: intere filiere del manifatturiero spostate fuori dai confini nazionali col risultato di impoverire progressivamente il Paese. La ricchezza si produce fuori e ritorna soltanto in minima parte a casa, grazie a sapienti costruzioni societarie a scatola cinese che disperdono gli utili nei Paesi a bassa tassazione. Qui però si lavora e soprattutto si guadagna sempre meno. E ora gli stessi industriali che producono all’estero il finto made in Italy si lamentano perché nessuno acquista più i loro prodotti. Bel colpo!

Questo è il libero mercato, bellezza, ci sentiamo ripetere dai soliti campioni di liberismo col portafogli degli altri che in dotte analisi pubblicate (quasi) indistintamente sui giornali italiani ci spiegano che siamo rimasti legati a un modello sociale superato dai tempi. Sarà anche vero, ma la loro sicumera si scontra con una realtà imprevista da questi campioni di logica: i borsellini vuoti, ben nascosti nelle tasche della stragrande maggioranza degli italiani. Certo, la fuga all’estero delle produzioni si deve soprattutto al clima italiano, decisamente inospitale per le imprese manifatturiere: una vagonata di tasse, adempimenti assieme a burocrazia da dissuadere anche il più paziente e ben disposto degli imprenditori. Il risultato finale, però, è quello censito da Mediobanca. Il 67% del made in Italy non c’entra nulla con l’Italia, se non per il brand, la marca che sfoggia. E ogni giorno, qui in Patria, ci riscopriamo sempre un po’ più poveri.

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