Prosecco italiano vs. Prosek croato e dazi cinesi sul vino: l’Italia rischia grosso

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Ora è sicuro: per l’Europa ci sono figli e figliastri. Nemmeno a dirlo, questi ultimi saremmo noi italiani. L’ultimo caso che dimostra la sufficienza con cui Bruxelles guarda alle vicende che ci riguardano è quello del Prosek, un vino prodotto in Croazia, la cui denominazione però fa a pugni con il nostro Prosecco e con le sue Dop che fra l’altro sono più d’una. Ad abundantiam. Ebbene, i viticoltori veneti avevano chiesto alla Ue di intervenire, memori del caso Tocai, quando gli ungheresi (che producono il Tokay) ci obbligarono a ribattezzare il nostro in Friulano. E Bruxelles cos’ha fatto? Se n’è lavata le mani. La difesa del Prosecco italiano – a cui l’Europa ha riconosciuto la denominazione d’origine protetta «spetta alle autorità competenti degli Stati membri». Di più: «Qualora la Croazia dovesse presentare domanda di protezione per il Prosek, la Commissione sarebbe tenuta a prenderla in considerazione». In parole povere: arrangiatevi e non pensiate che qui da noi si faccia il tifo per i vostri prodotti. Se i nuovi partner di Zagabria ci chiedono di proteggere i loro vini con nuove Doc, noi noi chiuderemo certo loro la porta in faccia.Prosek (1)
D’altra parte dall’Europa a trazione tedesca c’è poco da attendersi in termini di difesa dei nostri diritti. Berlino non perde l’occasione per mettere in difficoltà gli odiati italiani. I consorzi di tutela del Prosecco Doc e alcuni europarlamentari italiani (in testa Lorenzo Fontana e Giancarlo Scottà della Lega Nord) hanno chiesto l’intervento del governo italiano. Chissà se Letta & C. troveranno il tempo di occuparsene fra la cancellazione dell’Imu e il congelamento dell’Iva. Che fra l’altro non arrivano. Vedremo.
Croazia a parte, sul vino made in Italy pende una minaccia ben più preoccupante: la Cina, per ritorsione ai dazi imposti sull’Europa all’importazione di pannelli solari prodotti nell’ex Celeste Impero, ha aperto un’indagine antidumping sul nettare di Bacco che noi esporteremmo nel Paese comunista a un prezzo inferiore ai costi di produzione! Una bufala gigantesca… Ve li vedete i nostri viticoltori che esportano in Cina perdendoci? Impossibile, poi, che i nostri prodotti vengano venduti nel Gigante Rosso in regime di dumping: il costo del lavoro, nelle campagne cinesi, è fra i più bassi al mondo, quindi è praticamente impossibile che i nostri vini vengano venduti colà a prezzi inferiori ai loro. Dunque è la classica ritorsione: Pechino colpisce dove sa di poter fare molto male.
Quale sia la posta in gioco è presto detto: «Nel colosso asiatico», spiega il presidente della Coldiretti Sergio Marini, «si è registrato il più elevato tasso di aumento al mondo nei consumi di vino, che hanno raggiunto i 18 milioni di ettolitri, tanto da aver raggiunto il quinto posto tra i maggiori paesi bevitori. Il nostro vino», aggiunge Marini, «simbolo di eccellenza del made in Italy nel mondo, ha una portata rilevante per il Paese, sia in termini puramente economici con 4,7 miliardi di esportazioni che rappresentano il 20 per cento dell’intero export agroalimentare, sia in termini sociali, con 650.000 imprese e 1.200.000 occupati nel comparto».
Fra l’altro, a premere per l’introduzione dei dazi europei sui pannelli solari cinesi sono i tedeschi, la cui industria ha risentito della concorrenza dell’Estremo Oriente, mentre da noi praticamente la produzione è trascurabile. Secondo Marini la soluzione è una sola: sedersi al tavolo e trattare, «condizionando la risoluzione dell’indagine antidumping aperta dalla Ue nei confronti della Cina sull’importazione di pannelli solari a una analoga risoluzione del dossier vinicolo da parte delle autorità cinesi». Ma temo che Berlino non veda l’ora di metterci in difficoltà anche su una delle eccellenze mondiali del made in Italy. Per di più con un export in forte crescita.

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