Quei 115 milioni di chili di finto pomodoro italiano Made in China

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Ogni anno finiscono sulla tavola di ciascuna famiglia italiana 31 chilogrammi di pomodori trasformati sottoforma di pelati (12 kg), passate (11 kg), polpe o pomodoro a pezzi (5 kg) concentrati (3 kg). A fare il calcolo è l’ufficio studi della Coldiretti. Ebbene, almeno 2 confezioni su 10 sono fatte con pomodoro rigorosamente Made in China. Una materia prima che proviene facilmente da uno dei 259 lager (in cinese “laogai”) che ospitano oltre un milione di persone imprigionate spesso senza alcun processo e per reati d’opinione.  Il dato emerge dal rapporto presentato oggi a Palazzo Rospigliosi, sede nazionale della Coldiretti, dalla Laogai Research Foundation, un organismso sovranazionale che documenta da anni le violazioni dei diritti umani nel paese dell’ex Celeste Impero.
“Dai lager cinesi alle nostre tavole”, così s’intitola il primo rapporto che lega l’export agroalimentare cinese al sistema di fattorie-prigione su cui Pechino basa una fetta importante della propria capacità produttiva: un milione e mezzo di ettari adibiti alle colture più diverse. I pomodori conservati, segnala la Coldiretti, sono la prima voce delle importazioni agroalimentari dalla Cina delle quali rappresentano oltre un terzo in quantità (42%). Ma dal gigante asiatico sono arrivati anche ortaggi e legumi per  96,1 milioni di chili (+10%) e frutta per 12,8 milioni di chili. Per l’aglio è un vero boom: 4,5 milioni di chili (+50%). Peraltro la bilancia commerciale nell’agroalimentare è profondamente squilibrata: mentre le importazioni dalla Cina  hanno raggiunto in valore i 498 milioni di euro, le esportazioni di Made in Italy nel paese asiatico si fermano a 192 milioni.
La Cina ha iniziato a coltivare pomodoro per l’industria in tempi relativamente recenti, nel 1990. Ma in breve la capacità di pianificazione che tuttora fa capo al Partito Comunista ne ha fatto il secondo coltivatore mondiale dopo gli Stati Uniti. Così dalle navi sbarcano ogni giorno nei porti italiani circa  mille fusti di concentrato di pomodoro cinese, destinato a finire sulle tavole di tutto il mondo come condimento tipico del Bel Paese. L’industria di trasformazione si difende dicendo che queste conserve in cui il Made in Italy si limita (forse) alla carta su cui è stampata l’etichetta, sono destinate ai mercati africani. Ma i sequestri effettuati da Carabinieri, Guardia di Finanza e Forestale su decine di migliaia di barattoli di sughi e passate “taroccati”, testimoniano che il meccanismo non è poi così lineare. Sempre che sia lecito vendere a Paesi terzi un prodotto italiano solo nel nome della marca.
L’interesse per le conserve provenienti dal paese del Dragone è il prezzo, inferiore del 60% rispetto a quello che si paga per i prodotti analoghi coltivati in Italia. In questo caso però il dumping oltre a essere economico e sociale è pure sanitario: non solo le conserve Made in China vengono vendute a un prezzo inferiore ai nostri costi di produzione, ma sono pure rischiose da un punto di vista della salubrità. Su 3.291 allarmi per irregolarità lanciati lo scorso anno nell’Unione europea, ben 418 riguardavano la Cina per pericoli derivanti dalle contaminazioni di sostanze chimiche venute a contatto con gli alimenti.

Se non bastasse sapere che una fetta importante delle conserve che importiamo è ottenuta letteralmente sulla pelle dei perseguitati politici cinesi, dovrebbero far riflettere i rischi legati all’impossibilità di controllare le fasi della produzione: quali e quanti anticrittogamici e pesticidi avranno impiegato nei laogai per coltivare quei pomodori? I fautori di un liberismo stolto e soprattutto antistorico farebbero meglio a mettersi una manona sulla coscienza. Sempre che ne abbiano una.
I consumatori possono difendersi leggendo bene le etichette delle conserve che acquistano. Mentre per le passate c’è l’obbligo di indicare l’origine, gli altri derivati del pomodoro possono essere venduti senza alcun riferimento alla provenienza della materia prima. Taluni produttori però, la indicano chiaramente. Non resta che guardare attentamente la confezione.

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