Sede dello stabilimento e delocalizzazioni, l’etichetta a tutele decrescenti

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Con il nuovo regolamento, entrato in vigore il 14 dicembre scorso, l’Europa ha deciso
di cancellare l’obbligo di scrivere in etichetta lo stabilimento di produzione o confezionamento
degli alimenti. Sul tema sono lieto di ospitare un intervento di Dario Dongo,
avvocato esperto di diritto alimentare e fondatore del portale Great Italian Food Trade

L’indicazione della sede dello stabilimento sulle etichette dei prodotti alimentari è stata obbligatoria in Italia dal febbraio 1992 al dicembre 2014. Poi d’improvviso è venuta meno poiché il governo Renzi non ha notificato la norma nazionale a Bruxelles – come invece doveroso – in tempo utile rispetto al sopravvenire, il 14 dicembre 2014, del nuovo regolamento sulle etichette alimentari (Reg. UE 1169/2011).

Dario Dongo
Dario Dongo

Great Italian Food Trade lancia quindi una nuova petizione (su www.greatitalianfoodtrade.it), per chiedere il ripristino della notizia obbligatoria in etichetta sul sito di produzione. La premessa indispensabile per promuovere il Made in Italy alimentare infatti è la possibilità di identificarlo e distinguerlo rispetto ai falsi che pure affollano gli scaffali dei supermercati del pianeta.

La sede dello stabilimento, a ben vedere, risponde a due logiche esigenze:
– facilitare la gestione delle crisi di sicurezza alimentare, risalendo in tempi istantanei all’impianto produttivo da cui il prodotto proviene, senza bisogno di attendere la notizia dopo giorni e giorni dall’importatore o dal distributore che magari si trova dall’altra parte d’Europa;
– permettere al consumatore una scelta informata di acquisto, che può naturalmente tendere a favorire gli alimenti realizzati in un determinato territorio da un determinato produttore. Per contribuire all’economia e all’occupazione in un Paese e in una Regione, ma anche a titolo di riconoscimento verso la cultura materiale e le tradizioni dei vari distretti produttivi. Come è logico che nell’acquisto di una pizza si prescelga il Made in Italy, e in quello di uno stoccafisso si prediliga il Made in Norway, ad esempio.

Il blog Io leggo l’etichetta ha già accolto decine di migliaia di firme in una precedente petizione di pari tenore. Torniamo ora a fare sentire le nostre voci per pretendere la informazione obbligatoria sullo stabilimento di produzione, quale indispensabile presidio a tutela del Made in Italy, che non deve venire confuso né con il Made in Europe né tantomeno con il cosiddetto italian sounding.

Tenendo a mente un dato essenziale: nel comprare prodotti italiani mettiamo a segno ogni giorno il nostro piccolo Jobs Act che, grazie all’effetto volano della leva del mercato, ha un significativo impatto sulla produzione agro-alimentare e l’occupazione. Ma se perdiamo la capacità di distinguere «l’italiano vero», per dirla alla Toto Cotugno, le multinazionali che hanno già in tasca i marchi italiani trasferiranno le loro produzioni dall’Italia verso paesi dove produrre conviene di più. Come hanno già fatto, Nestlé col marchio Buitoni e Unilever col marchio Algida per citarne un paio. E proseguiranno, fino a che non verrà garantito il diritto dei consumatori di sapere – in Italia, in Europa e nel mondo – da dove proviene il prodotto.

«Made in», troppe chiacchiere e pochi fatti. Firmiamo tutti la petizione, su www.greatitalianfoodtrade.it

 Dario Dongo
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