Sergio Marini lascia Coldiretti. Per fondare il partito del made in Italy

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Sergio Marini si è dimesso da presidente della Coldiretti. Lascia la guida del sindacato più rappresentativo del settore primario che nei sette anni trascorsi nella stanza dei bottoni di Palazzo Rospigliosi, a Roma, ha trasformato da organizzazione potente ma un po’ polverosa e orfana della vecchia Dc, in un a vera macchina da guerra. È grazie a lui e alla sua Coldiretti se il confronto sull’origine dei prodotti che portiamo in tavola tutti i giorni è diventato uno dei temi all’ordine del giorno nell’agenda politica. In Italia e pure in Europa. Ed è stato lui a porre la questione della sostenibilità sociale delle filiere agricole. Mentre l’industria sollevava imponenti cortine fumogene con la corporate social responsability – declinandola in un ecologismo fesso e di maniera – Marini ha avuto il coraggio di porre con forza al Paese una domanda: se importiamo quote crescenti di finti prodotti made in Italy chi mai lavorerà più nelle nostre campagne?
La rivendicazione del diritto per chi produce a dichiarare l’origine degli alimenti – e in questo Marini ha saputo far compiere a Coldiretti un gigantesco passo avanti – ha coinciso con una consapevolezza crescente nei consumatori. È stato evidente che i diritti del popolo dei campi sono i medesimi dei nostri: sapere quel che portiamo in tavola e che mangiamo. Personalmente devo a lui e ai suoi collaboratori più stretti la nascita di questo blog e del mio interesse professionale per il vero made in Italy.
Ieri, da Cernobbio, ha annunciato le dimissioni per costituire una fondazione, Italia Spa (dove la esse sta proprio per sostenibilità, sostenibilità delle azioni),  per «portare l’esperienza della Coldiretti in politica e realizzare un nuovo grande sogno italiano». Per chi lo conosce e lo ha frequentato da vicino non è una sorpresa. Il capo del popolo delle bandiere gialle è un vero trascinatore, capace di infiammare anche le platee più disattente e pure poco disposte a sentir parlare di italianità delle nostre produzioni. In regime di telecrazia è uno degli ultimi grandi oratori, capaci di riempire le piazze.
Proprio dall’agricoltura può arrivare un segno di quel cambiamento necessario a far mutare passo al Paese e a una politica imbelle e indecisionista. Di questo Marini è consapevole da tempo. E «siccome le decisioni non le prende la Coldiretti ma la politica», ha scelto di scendere in campo in prima persona. Conoscendolo un po’ credo che pensi a un movimento di massa, capace di aggregare attorno alla difesa delle vere produzioni italiane, imprese e lavoratori, operai e padroni. Un modello interclassista, insomma, come poteva esserlo quello della Dc. Ma con un nitore d’obiettivi e una chiarezza di mezzi per raggiungerli sconosciuto alla vecchia Balena Banca. E in grado di combattere i grillismi sul loro stesso terreno: la capacità di parlare alla pancia della gente oltre che al cuore. Un po’ come faceva la Lega Nord alle origini.
Ecco, questo è il Marini che ho conosciuto personalmente e che immagino in politica. Si potrà apprezzarlo o avversarlo. Ma sarebbe un errore sottovalutare la sua capacità di aggregare le persone attorno a idee forti e comprensibili per tutti. Ora non resta che attendere dicembre, quando terrà la conferenza stampa per presentare il programma di Italia Spa.

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