De Cecco non ci sta ad essere catalogata come uno dei pochi produttori di pasta, fra i big, a non essersi convertita al grano 100% italiano. E minaccia azioni legali nei confronti dei giornali e dei giornalisti che osino mettere in dubbio l’italianità dei maccheroni che escono dagli impianti di Fara di San Martino.

Di recente ho pubblicato un articolo per aiutare i consumatori a distinguere fra le paste 100% italiane e le altre (I supermercati sono pieni di pasta italiana, basta cercarla). E la De Cecco non è classificata come prodotto interamente made in Italy. Ma non perché lo dica io, quanto piuttosto perché è lo stesso produttore a dichiararlo, scrivendo sull’etichetta «Origine del grano: Ue e non Ue». Ma questo non ha impedito all’ufficio legale della De Cecco di chiedere la rettifica a una rivista di settore che ha pubblicato la mia tabella.

origine della pasta

L’affermazione con cui «si boccia l’italianità della pasta a marchio De Cecco», scrive l’azienda nella richiesta di rettifica che non ha inviato a me ma alla rivista QB Quanto basta, «oltre ad essere grave, è offensiva ed errata, giacché la pasta De Cecco è 100% “made in italy”: infatti, tanto il suo ingrediente principale (semola e non farina di grano duro) quanto l’intero processo di lavorazione e fabbricazione dell’alimento avviene esclusivamente in Italia, sicché la pasta, ai sensi dell’art. 60 del codice doganale dell’Unione, è 100% italiana».

Di più: «Quanto all’indicazione dell’ingrediente principale, non è corretto affermare che vige l’obbligatorietà di indicare in etichetta la sua origine, giacché il Regolamento di esecuzione Ue 2018/775 pone tale obbligo solo qualora l’ingrediente principale, che nel caso di specie si ribadisce essere la semola di grano duro, abbia un’origine o una provenienza diversa dall’origine o dalla provenienza dell’alimento (art. 2 del Regolamento). Sebbene la semola di grano duro e la pasta De Cecco abbiano la medesima origine, cioè l’Italia, la società, pur non essendo obbligata, si è comunque impegnata a fornire anche tale indicazione sul packaging del proprio prodotto».
Concludendo che «quanto asserito nell’articolo è errato, tendenzioso e fuorviante giacché idoneo a ingenerare in chi legge false e pericolose convinzioni».

NESSUNA FALSITÀ

Ma davvero ho scritto una falsità, dicendo che la pasta De Cecco non è 100% italiana? «Direi proprio di no», mi rassicura il professor Stefano Masini, docente di diritto alimentare all’Università Tor Vergata di Roma e componente della Fondazione Osservatorio Agromafie, «si tratta di una vicenda su cui occorre far luce: la de Cecco ha utilizzato tesi giuridiche completamente difformi rispetto a quelle depositate all’Antitrust». Masini si riferisce agli impegni assunti dall’azienda di Fara di San Martino davanti alla Autorità garante della concorrenza e del mercato che aveva aperto un’istruttoria proprio sull’etichettatura della pasta De Cecco che recava nel campo visivo principale della confezione la dicitura «Made in Italy», la bandierina italiana ed espliciti riferimenti al carattere tradizionale del metodo De Cecco risalente ad una ricetta più che centenaria. Lo stesso dicasi per le immagini e le descrizioni evocative presenti sul sito internet dell’impresa.

UN PASSO INDIETRO

Stefano Masini
Stefano Masini

«Un passo indietro», spiega Masini, «con una scelta che fra l’altro sembra confermare la mancanza della necessaria diligenza richiesta all’operatore commerciale dalle disposizioni del codice del consumo in materia di pratiche commerciali, tenuto conto che sebbene in sede di impegni l’impresa non si è mostrata pentita, al contrario, nella replica alla pubblicazione dell’articolo in esame, ha ribadito la correttezza del proprio modo di operare. Tanto è vero che la richiesta di rettifica da parte di De Cecco si alimenta sul fatto di ritenere che l’ingrediente primario della pasta sia la semola e non il grano. Ma da questo punto di vista, al di là del decreto sull’etichettatura d’origine obbligatoria del grano utilizzato per la pasta, introdotto dal governo italiano, che conferma, semmai ce ne fosse bisogno, l’orientamento del legislatore sul tipo di ingrediente primario per la pasta, c’è un lungo passaggio nel provvedimento dell’Antitrust dove si esclude categoricamente che possa essere la semola l’ingrediente primario e non il grano».

Masini è un vero esperto della materia. «Nel provvedimento di condanna della Lidl, pubblicato sul Bollettino dell’Authority numero 3 del 20 gennaio 2020», aggiunge, «al paragrafo 68 si fa riferimento al fatto che l’ingrediente primario rinvia a due criteri. Uno quantitativo nel senso che il grano rappresenta più del 50% della pasta e l’altro qualitativo, in quanto l’ingrediente associato alla denominazione della pasta è il grano duro e il consumatore appare interrogarsi non tanto sulla provenienza della semola, quanto piuttosto sull’origine del grano. Così che, l’interpretazione dell’Antitrust fa del grano duro l’ingrediente primario. La De Cecco, all’epoca del provvedimento, presentò impegni circostanziati per evitare la sanzione dell’Antitrust, a cominciare da quelli di cancellare dalla confezione la dicitura «made in Italy».

RETTIFICA SENZA FONDAMENTO

«La rettifica richiesta è, dunque, destituita di fondamento», puntualizza Masini, «soprattutto per il fatto che non è la semola ma il grano a identificare l’italianità del prodotto. Fra l’altro l’articolo contestato da De Cecco aveva un contenuto prettamente informativo e anche laddove è stato utilizzato il criterio comparativo, l’indicazione della “X” per individuare l’assenza di grano duro soltanto italiano non è denigratoria ma viene utilizzata per indicare l’assenza di una determinata caratteristica. Come risulta, fra l’altro, dalle delibere dell’Antitrust, lo schema comparativo della pubblicità può dirsi lecito quando indica oggettivamente la presenza o l’assenza di un requisito che si vuole esplorare e non introduce elementi di discriminazione o di denigrazione. L’approccio è del tutto corretto, non fuorviante o ingannevole né tale da pregiudicare la reputazione del marchio”.

DISATTESI GLI IMPEGNI CON L’ANTITRUST

La vicenda appare emblematica proprio della necessità di prestare adesione agli impegni assunti con l’Authority. «Davanti all’Antitrust», aggiunge Masini, «la De Cecco si è impegnata a fare alcune cose per non diventare destinataria di una probabile sanzione. Oggi, fuori da quella controversia, la società modifica la propria strategia. Questo non è credibile: il “racconto” della pubblicità non può contenere cose diverse rispetto a quelle sostenute negli atti difensivi davanti all’Autorità. In effetti, anche dalle informazioni pubblicate sul sito aziendale, non sembra emergere in modo chiaro la posizione dell’impresa che, se per alcune linee di pasta presenta il nuovo packaging depurato delle informazioni contestate, per altre continua a riproporre le precedenti etichette evocative con la bandierina, il Made in Italy e il riferimento al metodo centenario, senza tuttavia, consentire di cliccare sulla retroetichetta per leggervi l’origine del grano dall’Arizona o da qualche altro Paese extraeuropeo. Eppure, gli impegni sono stati accettati dall’Authority sul presupposto che le rettifiche proposte fossero idonee a garantire l’equilibrio informativo tra le indicazioni presenti sulla confezione e la trasparenza delle informazioni fornite al consumatore. Questa sì che è una posizione capace di far perdere reputazione a un marchio».

pasta De Cecco

E la questione della semola? «Non è accettabile la tesi per cui siccome il grano è lavorato in Italia allora è la semola che fa diventare la pasta italiana» conclude Masini, «quando poche settimane or sono la De Cecco aveva sostenuto esattamente il contrario. Ma la questione, al di là delle singole affermazioni, è quella di capire se le informazioni presenti sulla confezione dei diversi tipi di pasta possano considerarsi davvero complete per evitare che i consumatori siano indotti a credere che la filiera della pasta De Cecco sia tutta italiana, a partire dalla così detta materia prima agricola e, cioè, l’ingrediente primario, che, si ribadisce, è il grano e non la semola. E la conferma, ancora una volta, giunge dal decreto del Ministero delle politiche agricole pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 luglio, che proroga fino al 31 dicembre 2021 l’obbligo di riportare, in un punto evidente dell’etichetta e nello stesso campo visivo, il Paese di coltivazione del grano e il Paese di molitura. A dimostrazione che si tratta di due indicazioni distinte ma entrambe obbligatorie e che, prima ancora della semola, a dare valore alla pasta e ad orientare il consumatore nella scelta, sia l’origine del grano».

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1 COMMENT

  1. Bell’articolo, interessante ed esplicativo.
    In Italia, abbiamo purtroppo troppi escamotage che permettono ai produttori di vendere qualsiasi cosa al consumatore meno attento e curioso.
    Ci dovrebbe essere più chiarezza e trasparenza nelle etichette.

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