Dopo il Made in Italy tarocco arriva il finto Made in France. Prodotto in Italia

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A volte nella vita incontri una persona con cui condividi un pezzo importante del tuo percorso di  crescita. A me è accaduto con Luciano Barbera, stilista, imprenditore del tessile-abbigliamento. Ma soprattutto strenuo difensore del vero Made in Italy. Quello realizzato interamente ne nostro Paese. Dai tessiti fino all’ultimo bottone della giacca o del cappotto. Ebbene, dopo anni di lontananza, i nostri destini sono tornati a incrociarsi. Ci siamo scritti qualche breve messaggio di posta elettronica. Ritrovandoci a parlare dell’unico vero valore aggiunto capace di salvare l’economia e il lavoro dalle nostre parti: il Made in Italy.
Sulle pagine del blog scrivo prevalentemente di prodotti alimentari. Così mi capita di trascurare altri comparti produttivi, come il tessile-abbigliamento, letteralmente devastati dai falsi e dal «finto» Made in Italy. Quello prodotto cioè da aziende del nostro Paese ma con materie prime e semilavorati provenienti da tutto il mondo. Naturalmente etichettato come italiano.
Ho chiesto a Barbera un contributo per il blog. Eccolo qui sotto.
Un’ultima nota: quando alcuni anni or sono ci siamo trovati ad occuparci assieme di questi temi, lui da grande esperto della materia e il sottoscritto da giornalista che ne raccoglieva la testimonianza, ci hanno tirato contro di tutto. Si sono scomodati perfino viceministri e presidenti di potentissime associazioni di produttori. L’inchiesta che uscì su Libero, il giornale per cui lavoro, arrivò comunque fino alla fine, nonostante gli innumerevoli interventi per bloccarla o pilotarla. Per questo, dopo averlo conosciuto come imprenditore ma anche come uomo, pubblicare l’intervento di Luciano Barbera mi fa ancora più piacere.

Le griffe francesi, per produrre i loro capi di abbigliamento di qualità, utilizzano i manifatturieri italiani più prestigiosi, sia nel campo dei tessuti sia in quello della confezione. Ora, con il Paese in piena campagna elettorale e con lo scopo di difendersi dalle produzioni asiatiche, cinesi in particolare, i francesi sono decisi a richiedere l’etichettatura obbligatoria «Made in France». È stata fissata come soglia minima per etichettare come francese un capo d’abbigliamento il 55% di materia prima prodotta all’interno dei confini nazionali. Mi auguro che i nostri parlamentari europei che non sono riusciti ad ottenere in Europa né la legge che garantisca i consumatori sull’origine dei prodotti in vendita in Europa, né quella che obblighi ogni Paese europeo ad etichettare con il proprio «Made in» quanto realmente produce, compiano ora uno scatto d’orgoglio e non accettino il compromesso francese. La Francia è forte e ha dimostrato di poter orientare le scelte dell’Europa. E a noi toccherà stare a guardare: non gioca a favore della nostra credibilità, tra le altre cose, il ricordo della scandalosa legge Reguzzoni-Versace (*) sul tessile abbigliamento votata dalla totalità dei parlamentari.
Muoviamoci prima che  al nostro scandalo, fortunatamente finora congelato, si aggiunga quello francese!
I miei ormai decennali appelli affinché si riconosca al nostro Paese, il più prestigioso dei Paesi manifatturieri nel tessile-abbigliamento in Europa e nel mondo, il diritto per legge di etichettare «Made in Italy» solo quei prodotti interamente realizzati in Italia per tutelarli dalle sempre più frequenti mistificazioni, sono stati nel tempo sempre vanificati dalle lobby del potere economico e politico, che preferiscono sguazzare nel torbido affinché si possano arricchire i furbi, anche a scapito dei posti di lavoro in Italia.
Le delocalizzazioni di parte o di tutte le lavorazioni, anche se giustificate con la riduzione dei costi, hanno creato perdite notevoli per le casse dello Stato e milioni di disoccupati, cassaintegrati o persone in mobilità. Il manifatturiero italiano del tessile-abbigliamento, ricco di tradizione e cultura, è un’arte che dovrebbe essere salvaguardata. Rompendosi, come accade, la filiera produttiva, non si può che generare miseria. Salvaguardandola, promuovendola, assicurandola, prendendo ad esempio la legge americana sul «Made in Usa», si genererebbero valore aggiunto, incrementi alle esportazioni e ripresa economica. Con un provvidenziale  aumento nei posti di lavoro, anche per le nuove generazioni.
Purtroppo l’attuale governo, che finora si è solo preoccupato di mostrare al mondo il suo saper impoverire gli italiani già poveri, non ha pensato a quale spinta potrebbe ricevere la nostra economia da questo settore, ora in grande crisi di identità e in recessione, soprattutto a causa della concorrenza sleale prodotta dal «Made in Italy» taroccato. Se non si correrà subito ai ripari, i francesi faranno grande il loro falso «Made in France», impiegando il meglio delle nostre manifatture. A noi l’amaro in bocca per non averle interamente utilizzate nella produzione del vero «Made in Italy».

Luciano Barbera

(*) La norma di cui parla Barbera, approvata nel 2010, suddivide il processo di lavorazione di tessili, calzature e pelletteria  in diverse fasi che devono avvenire prevalentemente in Italia. Almeno due fasi devono essersi svolte entro i nostri confini mentre per le altre deve essere verificabile la tracciabilità.

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