L’analisi/Attacco al made in Italy. Se le accuse sono fondate non ha senso fare gli indignati

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La Federalimentare risponde con durezza alle accuse di falsificazione lanciate dal New York Times con la striscia di cartoon intitolata «Il suicidio dell’extravergine, la contraffazione dell’olio d’oliva italiano» (ecco il link). «I ripetuti attacchi sull’origine delle materie prime», afferma Filippo Ferrua Magliani, presidente della Confindustria  del cibo, «negano la storia stessa del nostro made in Italy, fatta di qualità e sicurezza. Dopo sei anni di crisi in cui l’industria alimentare ha tenuto duro, difendendo la sua produzione e l’occupazione, ora deve giustificare il valore aggiunto, l’identità, il messaggio del made in Italy di cui essa è portatrice di fronte a campagne mediatiche nate per ridurre questo concetto alla mera origine della materia prima, arrivando a denunciare come falso made in Italy quello di aziende italiane che da sempre utilizzano anche materie prime importate. È una concezione assurda e autolesionista», chiosa Ferrua, «oltre che la negazione stessa della nostra storia di Paese trasformatore».
In realtà, gli americani fanno bene a incazzarsi quando un’azienda italiana (o presunta tale) vende loro dell’olio marocchino, tunisino o addirittura australiano, spacciandolo per italiano. Anche perché, i prezzi a cui questi prodotti “italiani ma non troppo” vengono posti in vendita negli Usa non sono decisamente di favore. Ferrua evidentemente ignora che molti dei prodotti venduti in Italia ed etichettati come «comunitari», nel resto del mondo non dichiarano alcuna origine in etichetta. I consumatori degli altri Paesi, quando acquistano un prodotto con marchio italiano, magari con una bella coccarda tricolore sulla confezione, secondo voi, cosa pensano di portare in tavola? L’olio australiano etichettato a Inveruno o a Tavarnelle Val di Pesa dalla Deoleo, oppure un vero extravergine italiano al 100%?
Qui, caro Ferrua, non si tratta di «sostenere ideologicamente il primato di un made in Italy più buono e sano perché a Km zero», ma di capire quel che mangiamo. Ora, rispetto al passato, questa domanda a proposito dei finti prodotti italiani, cominciano a farsela anche gli stranieri. Il vaso di Pandora è scoperchiato. E ogni tentativo di richiuderlo è destinato a provocare ulteriori danni. Per l’intero made in Italy, anche quello vero. Perché quando l’immagine di un prodotto (o di un intero comparto produttivo) è compromessa, a poco servono gli stratagemmi semantico-lessicali per salvarla.
Sarà anche vero, come sostiene lei, che «non sempre la materia prima italiana è sufficiente in quantità o è di qualità adeguata», ma questo non può giustificare – come ha giustamente stigmatizzato il New York Times – atteggiamenti reticenti. Si usa olio australiano? Allora lo si scriva sull’etichetta, almeno l’acquirente statunitense saprà quel che sta mettendo nel carrello della spesa.
Ora, comunque, mi spiego il pesante fuoco di sbarramento scatenato dalla Ue e dall’industria alimentare contro la legge “Salva olio”. Se davvero dovesse diventare di pubblico dominio l’entità delle importazioni in Italia di olio dai Paesi extra europei (magari attraverso triangolazioni compiacenti), chi mai comprerebbe più l’extravergine «made in Italy»?
Anziché indignarci perché gli americani hanno scoperto il trucco, chiediamoci come possiamo evitare che a Milano come a New York un consumatore possa acquistare un (presunto) pezzo d’Italia che in realtà è una volgare patacca.
Altrimenti facciamo una bella legge consistente in un solo articolo che reciti più o meno così:
«Qualunque materia prima o semilavorato che transiti dall’Italia subendo nel nostro Paese una qualsiasi trasformazione, sostanziale e non, diventa per ciò stesso italiana». Così nessuno, nel resto del mondo, potrà più dire nulla in proposito. Oppure no?

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