Va bene la settimana della spesa giusta, ma quando quella sostenibile?

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È partita in questi giorni la decima edizione della «spesa giusta» la campagna di promozione dei prodotti del commercio equo certificati Fairtrade, «un’organizzazione globale che attraverso il Marchio di Certificazione Fairtrade – si legge sul sito ufficiale dell’agenzia italiana – si propone di garantire migliori condizioni di vita per i produttori dei Paesi in via di sviluppo». Un obiettivo sicuramente meritorio.
Il meccanismo è semplice ma efficace e lo apprendo sempre dal portale dell’organizzazione: «Caffè, cacao, banane, ananas, miele, succo d’arancia, tè ma anche palloni, rose, cotone e molti altri prodotti creati e commercializzati nel rispetto dei diritti dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo. Grazie al Fairtrade, i piccoli produttori ricevono un prezzo equo e stabile (Fairtrade Minimum Price) e un margine aggiuntivo da investire per la crescita delle comunità (Fairtrade Premium)». In effetti, il problema sta proprio qui: come far arrivare ai produttori un po’ di più del valore che si crea alla vendita, quando il consumatore finale mette mano al portafoglio e acquista.
Mi pongo però una domanda: perché non lanciare una campagna anche sulla spesa sostenibile a base di prodotti italiani? Giusto trasferire più del valore che noi attribuiamo a quanto mettiamo nel carrello della spesa e che proviene dai Paesi in via di sviluppo. Giusto, sacrosanto e pure utile a noi. Non prendetemi per cinico ma più miglioriamo le condizioni di vita in quei luoghi e più contribuiamo a ridurre i fenomeni di emigrazione di massa verso un Eldorado (l’Europa) che sta smettendo di esserlo.
Ma il principio della spesa equa deve valere anche per i nostri produttori. Oppure quanti vivono dei prodotti della terra in Italia sono coltivatori di serie B e necessitano ancor meno attenzione di quella – scarsissima – che dedichiamo d esempio ai produttori ganesi o equadoregni?
Eppure il «furto di valore» ai danni del popolo della terra si verifica anche da noi. I margini maggiori, quelli che hanno consentito all’industria alimentare e alla Gdo di fare profitti da favola, si creano negli ultimi anelli che portano dal campo alla tavola.
Ecco il senso della domanda che mi ponevo: perché non lanciamo la settimana della spesa made in Italy sostenibile? E parlo della sostenibilità vera, quella sociale, che  garantisce il lavoro a tutti i protagonisti della filiera. Ma per trasferire anche solo una percentuale minima del valore all’origine, vale a dire al campo o alla stalla, bisogna che i prodotti italiani siano riconoscibili dagli altri. Una forma di formaggio, una bottiglia d’olio extravergine, un barattolo di sugo di pomodoro, racchiudono dentro all’involucro che li contiene un valore insostituibile: il lavoro di chi li ha prodotti. Ma devo poterli riconoscere come italiani per sceglierli, altrimenti il mio sforzo è vano. Peccato che nell’83% dei casi le referenze in vendita nel nostro Paese abbiano etichette reticenti al punto da nascondere non soltanto l’origine degli ingredienti, ma pure lo stabilimento di produzione e confezionamento. E ciò non avviene per caso.

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