Ecco perché il vero Made in Italy non dev’essere riconoscibile

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«La nostra battaglia in Europa per un’etichettatura trasparente e non ingannevole riguarda ovviamente anche l’olio, oltre a tutti gli altri prodotti». Così il ministro Francesco Saverio Romano, alla trasmissione Gastronauta in onda su  Radio 24 sabato 2 luglio. «Si tratta di un percorso – ha chiarito Romano – che da un lato è teso a proteggere la salubrità dei nostri cibi e dall’altro a sostenere il nostro mercato che è di qualità e che può essere tutelato solo se il consumatore viene messo nelle condizioni di sapere ciò che acquista. In tal senso ha particolare rilevanza il decreto ministeriale che ho varato poco dopo il mio insediamento per garantire una maggiore trasparenza e comprensione di tutte le etichette dei prodotti che già  hanno l’obbligo di tracciabilità. Non è possibile che un consumatore, per sapere da dove proviene l’olio che acquista, sia costretto a usare la lente di ingrandimento».
Chi si aspettasse davvero di poter capire leggendo le nuove “etichettone” previste dal decreto Romano – con l’indicazione d’origine sul fronte della bottiglia e non sul retro e a caratteri più grandi – si sbaglia di grosso. La maggior parte degli oli commerciali (giusto per non far nomi Sasso, Bertolli, Carapelli e via dicendo) continuerà a indicare: «Prodotto con oli extravergini comunitari».
Pensate che nemmeno i prodotti dei consorzi Dop – è così per i prosciutti crudi come ho documentato nel post della scorsa settimana  – dichiarano chiaramente in etichetta la loro origine italiana. Eppure il disciplinare di produzione, che ha forza di legge in quanto è stabilito con un decreto, prevede che siano ottenuti da maiali nati, cresciuti e macellati soltanto in talune Regioni d’Italia.
Così un consumatore che volesse acquistare i prodotti italiani non può farlo. E per un motivo ben preciso: non riesce a distinguerli dagli altri sui banconi del supermercato. Conseguenza non di una scelta casuale ma di una regia ben precisa che accomuna centinaia di referenze, dall’olio ai salumi, dal miele al formaggio. Questa congiura del silenzio che genera le etichette reticenti provoca due effetti sulle filiere italiane: un danno d’immagine e un danno economico. Ne sanno qualcosa gli allevatori di suini, molti dei quali sono a un passo dal fallimento. Ma pure chi alleva bovini non sta meglio: anche se per la carne di manzo è prevista la tracciabilità, il consumatore non percepisce la differenza di valore fra la carne italiana e l’altra perché nessuno gliela spiega. Per farlo occorrerebbero milioni di euro da spendere in campagne promozionali e i nostri allevatori non hanno un cent.
Meno si riesce a distinguere il vero Made in Italy a tavola e più questo gioco funziona. Se sui banconi dei supermercati i prodotti delle filiere italiane fossero immediatamente riconoscibili gli altri si venderebbero molto meno. Non si deve poter separare gli uni dagli altri. Nemmeno se sono Dop.

Ecco il senso del grande inganno di cui sono vittima i consumatori.

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