Luciano Barbera a un fondo Usa. Perdiamo un vero campione del made in Italy

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Luciano Barbera, lo storico marchio della moda maschile made in Italy va al fondo americano Tengram Capital Partners che acquisisce la quota di maggioranza nella società di famiglia. Barbera, icona assoluta per il movimento a difesa del vero made in italy, sarà presidente emerito. La figlia Carola continuerà a guidare il reparto creativo, ma alla guida della società arriva un manager di quelli che non amano condividere il potere (e la gestione d’impresa) con altri: Todd Barrato, già amministratore delegato della Brioni.

Il fondo di private equity del Connecticut ha già pronto il piano di rilancio che prevede l’apertura di nuovi monomarca negli States. «Dopo avere valutato diverse opportunità in questo settore», ha spiegato William Sweedler, cofondatore e managing partner della Tengram, «abbiamo trovato Luciano Barbera particolarmente convincente per via della sua autentica tradizione e della qualità dei prodotti interamente made in Italy» In effetti Barbera è rimasto uno dei pochi a realizzare capi d’abbigliamento prodotti con materie prime tutte italiane, dai tessuti all’ultimo bottone. Come dimenticare le sue battaglie in difesa dei prodotti tricolori, a cominciare dalla proposta di un Manifesto del vero made in Italy. Un percorso che lo portò a scontrarsi con le grandi lobby dell’industria e le loro propaggini politiche. Non a caso l’unione industriali di Biella, dapprima schieratasi al suo fianco, lo ha poi mollato quando, probabilmente da Viale dell’Industria, è arrivato l’ordine di desistere dal proseguire la battaglia in difesa dei prodotti italiani al 100 per cento. Erano gli anni del Berlusconi bis, quando viceministro dello Sviluppo economico con delega al Commercio estero era Adolfo Urso, mentre a guidare la struttura di Confindustria per la lotta alla contraffazione era Giandomenico Auricchio. Intervistai entrambi e mi resi presto conto che le forze in campo, schierate a difesa dello status quo erano davvero impressionanti.

Il manifesto di Barbera naufragò nell’indifferenza (interessata) delle istituzioni politiche ed economiche, mentre i media – con qualche rara eccezione – si impegnarono più che altro in un’opera di demolizione sistematica dei principi sui quali puntava, a cominciare dalla tracciabilità totale delle filiere produttive.

Ho incontrato Luciano Barbera lo scorso mese di aprile ad una conferenza stampa dell’Assocalzaturifici, all’indomani del via libera in prima lettura, al Parlamento europeo, del regolamento sul made in obbligatorio. Gli scarpari erano entusiasti all’idea di poter portare a casa una norma che consentiva loro di etichettare come made in Italy scarpe assemblate, non prodotte, nel nostro Paese. Gli unici a segnalare la pericolosità delle nuove norme europee per il lavoro nelle nostre fabbriche e per i veri prodotti tricolori  siamo stato lui ed io. Sentendoci dare pure degli «integralisti».

Spero di poter continuare a condividere con Luciano le battaglie per la difesa dei prodotti fatti in Italia e con materie prime nazionali. Quelli che assicurano il lavoro qui e in  tutta la filiera.

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