Che fine fanno i 60 milioni di cosce forestiere che importiamo ogni anno?

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A volte i conti non tornano. Quando succede, in un’azienda sono dolori. In una famiglia pure. Se a non tornare è la contabilità delle cosce di maiale utilizzate per fare il prosciutto c’è da preoccuparsi. E parecchio.
Ecco i numeri. Ogni anno, in Italia, si macellano 12.948.000 maiali che assicurano 25.896.000 cosce. Di queste 17.520.868 vengono certificate per le produzioni Dop (Denominazione di origine protetta) dai vari consorzi. Per esempio il San Daniele e il Parma. I prosciutti che si possono ritenere comunque italiani a tutti gli effetti ma estranei al circuito delle Dop sono 8.375.132.
Fin qui i numeri di casa nostra. Ma questi 26 milioni scarsi di cosce non coprono il fabbisogno italiano. Nella migliore delle ipotesi rappresentano un terzo dei prosciutti commercializzati dalle imprese basate nel nostro Paese. A complicare i calcoli (che per comodità pubblico alla fine del post in forma di tabella) ci sono i prosciutti che esportiamo, in tutto, tra freschi, congelati e cotti ammontano a circa 7.810.491 cosce.
Ma c’è un altro dato che vi devo dare prima di arrivare alla tabella: complessivamente in un anno in Italia mangiamo 81 milioni scarsi di prosciutti. Ma se ne produciamo appena 25 milioni, vuol dire che la differenza, pari a 62.906.958 cosce, arriva dall’estero. Ora la domanda è questa: che fine fanno questi prosciutti? Come vengono venduti? E, soprattutto: quando al supermercato mettiamo nel carrello una vaschetta di crudo, cosa stiamo comperando? Un prosciutto italiano, oppure un prosciutto lavorato in Italia ma ottenuto da maiali stranieri?
Ecco, l’unica certezza è proprio questa: non riusciamo a distinguere gli uni dagli altri. Inutile leggere il codice a barre presente sull’etichetta. La sigla che identifica il Paese non indica la provenienza della materia prima ma quello in cui il salume è stato lavorato e confezionato. Nulla di più e nulla di meno. Non riescono a risalire oltre neppure i responsabili della qualità delle catene di distribuzione. Gli unici ad avere questo potere, a quanto mi risulta, sono  i ministeri della Salute e dell’Agricoltura: in base ai lotti registrati possono percorrere a ritroso la filiera e scoprire la vera origine di prosciutti, mortadelle e bresaole.
A volte neppure sulle etichette dei prodotti Dop è scritto in chiaro il Paese in cui sono stati allevati i maiali. In questi casi però i disciplinari dei consorzi garantiscono una rigorosa tracciabilità. Ma i prosciutti con la carta d’idendità sono appena 28,8 milioni, sugli 81 milioni che finiscono sulle nostre tavole.Poco più del 30%. Dunque 6 vaschette su 10 di Made in Italy hanno solo la plastica che racchiude l’affettato. E forse nemmeno quella.
Ecco, la contabilità del salumaio finisce qui. Basta ragionamenti sui numeri. Nei prossimi giorni vi racconterò cosa ho scoperto facendo la prova-etichetta sui prosciutti. In particolare sui crudi. Da giorni penso a questo post e rimugino sulle cifre. Così ho deciso di acquistare un buon numero di vaschette di crudo. Le apro un po’ alla volta. Oltre ad assaggiarle, saziando una fame “stanca” (quando mi metto a tavola di solito è notte inoltrata), analizzo una per una le etichette. L’obiettivo è quello consueto: verificare cosa ci sia scritto sopra. Vi racconterò. Spero nel frattempo di non accumulare troppo colesterolo. Una cosa posso anticiparvi: fra il crudo Dop e quello senza carta d’identità c’è una bella differenza. Anche nel prezzo.

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