La lezione degli americani: l’invasione di prodotti sottocosto dalla Cina si ferma anche con i dazi

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Chi sostiene che i dazi antidumping per arginare le importazioni a prezzi stracciati della Cina non servono racconta una delle più grosse balle del decennio. Valga per tutti l’esempio del solare, comparto dove i prodotti Made in China arrivano a rappresentare anche il 90% del mercato. Di fatto i pannelli prodotti a basso costo nell’ex Celeste Impero hanno spianato la concorrenza europea e americana. Con una differenza: gli Stati Uniti come sempre non hanno esitato a intervenire con forti tariffe doganali per proteggere quel che restava della propria industria produttrice di pannelli e celle fotovoltaiche. Alla metà dello scorso anno Washington ha imposto dazi sui prodotti Made in China che vanno dal 30 al 250%. Risultato: il numero degli impianti fotovoltaici  è addirittura aumentato. I prezzi ai clienti finali  sono invariati e in taluni casi addirittura diminuiti. Ma soprattutto  il dumping è finito, l’industria americana  può sopravvivere, i consumatori non hanno sborsato un dollaro in più e il mercato americano è in crescita.
L’Europa, come sempre,  sta ancora discutendo se e come introdurre le tariffe doganali, dimostrandosi sensibile perfino alle azioni di lobbing finanziate da Pechino. Eu Prosun, l’associazione europea dei produttori di «solare» smentisce un’analisi circolata  in queste settimane in base alla quale l’introduzione delle barriere protettive antidumping farebbero perdere alle imprese europee 240mila posti di lavoro. In effetti sarebbe il primo caso nella storia in cui misure di protezione a vantaggio dei produttori locali finiscono per danneggiarli. Senza contare che tutto si può dire degli americani, tranne che non comprendano i meccanismi del mercato. E se Obama ha deciso di arginare l’invasione cinese nel fotovoltaico l’ha fatto a ragion veduta. Come dimostrano i risultati ottenuti sul campo.
In realtà la situazione del solare si ripropone per decine di comparti produttivi: tessile, abbigliamento, calzature, occhialeria, molti settori dell’alimentare. Con una differenza: non si parla di barriere antidumping perché ad acquistare sottocosto le merci importate da Cina, Vietnam, India, Nordafrica, o a farle produrre colà in impianti delocalizzati dall’Italia, sono i nostri imprenditori. Per fortuna non tutti, ma c’è chi ha costruito una fortuna su merci acquistate (o prodotte) ad esempio nel Guandong a pochi dollari al pezzo e rivendute da noi a centinaia di euro.
Trovo assurdo che tranne alcune eccezioni, la politica abbia abdicato alla difesa del Made in Italy. Lasciando pure il presidio del «fatto in Italia» a Beppe Grillo.

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