Articolo 18, statali e conti pubblici: ecco la verità

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Le riforme le facciamo noi! L’Europa può indicarci la direzione, ma saremo noi a decidere cosa fare… E non aumenteremo le tasse. Con queste  parole il premier Matteo Renzi ha dato l’ennesimo altolà all’Unione europea che sta esercitando un forte pressing su Roma perché faccia queste benedette riforme strutturali. L’impegno risale all’estate 2011 quando, dopo aver ricevuto la celeberrima lettera con il menù delle richieste firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, Silvietto Berlusconi si era impegnato a mettere mano a pensioni, sanità, lavoro, pubblico impiego.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco che ci è costato tre anni di ritardi e infiniti guai. Quando Bruxelles e in genere le istituzioni europee parlano di riforma del lavoro pensano a una cosa innanzitutto: la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Da giocare soprattutto nella ristrutturazione della macchina pubblica. La scure, secondo la Ue, dovremmo utilizzarla soprattutto sul pubblico impiego, visto che le imprese private hanno già falcidiato gli organici. Senza contare quelle che proprio hanno chiuso i battenti, lasciando a spasso centinaia di migliaia di persone. Una prospettiva che per gli statali semplicemente non esiste.

Il ragionamento dell’Europa, condivisibile o meno che sia, è elementare: cari italiani, siete con le pezze al culo e non potete più permettervi 3 milioni e 600mila dipendenti pubblici. O intervenite voi, oppure la prossima riforma ve la scriviamo noi, da Bruxelles. Questo significava, in pratica, l’esternazione di Draghi [foto] quando – due settimane ora sono – ha fatto sapere senza giri di parole che è arrivato il momento di «condividere sovranità» anche sul terreno delle riforme. Da qui è partita la querelle seguita all’annuncio di Angelino Alfano sulla necessità di inserire l’abolizione dell’art. 18 fra i provvedimenti che il governo si appresta a licenziare a fine mese. Non mi sogno certo di addentrarmi nella diatriba. Mi limito a fare una riflessione: la proposta di riforma più realistica in materia è quella del giuslavorista Pietro Ichino (ex Pd ora Scelta Civica) che da anni propone il contratto a tutele crescenti: trentasei mesi iniziali di moratoria durante i quali l’art. 18 non vale e dopo, dal quarto anno in poi, un aumento crescente del costo per l’impresa che vuole licenziare. Sul suo sito Pietroichino.it trovate approfondimenti, analisi e dibattiti in materia. Io mi fermo qui.

Mi limito a constatare che la favola dei dipendenti pubblici italiani fra i meno costosi d’Europa è una balla gigantesca. Sarà anche vero che vi sono Paesi in cui il costo degli statali in rapporto al Pil è più alto che da noi, ma questi stati, invariabilmente, hanno un debito molto inferiore al nostro. Lo si vede chiaramente nei grafici che pubblico. Il primo (fonte Eurispes) mette in fila i Paesi con la maggiore incidenza dei dipendenti pubblici sul Pil. E in effetti, guardando soltanto queste percentuali, l’Italia con l’11,1% arriva dopo Danimarca, Svezia, Finlandia, Francia, Belgio, Spagna e Gran Bretagna. Diversa la prospettiva se a questa serie si aggiungono i dati sul rapporto deficit-Pil e quelli sul debito-Pil. Come si vede chiaramente dal secondo grafico (fonte Eurostat) noi abbiamo un debito pubblico mostruoso, pari al 132,6% del Pil. La Danimarca, in cui gli statali assorbono 19,20 euro ogni 100 prodotti dall’economia, ha un debito pari a un sesto del nostro. Per non parlare della Germania in cui i dipendenti pubblici, su 100 euro di ricchezza collettiva prodotta, ne assorbono meno di 8. Senza contare che mentre Berlino ha chiuso il 2013 con un rapporto deficit-Pil uguale a zero, noi eravamo a -3%. e i debito dei crucchi si ferma al 78,4% del Prodotto interno lordo. Quindi non solo i nostri statali costano più dei loro, ma noi distruggiamo ricchezza invece di produrla. Incidentalmente (ma non troppo) a giugno il debito pubblico italiano ha raggiunto la cifra monstre di 2.168 miliardi, ben 99 in più dall’inizio dell’anno.

Ecco perché i tedeschi non ci danno tregua e ci chiedono in continuazione di raddrizzare i conti. Dimenticare queste cifre – che riflettono lo stato di salute dei diversi Paesi – è una manifestazione di ignoranza premeditata.

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