L’extravergine tarocco non è come il vino al metanolo. Qualcuno lo spieghi a Realacci

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Qualcuno spieghi a Ermete Realacci (foto), presidente della Fondazione Symbola (e parlamentare Pd) che l’olio non è vino. «Negli anni ’80», ha detto ieri alla presentazione dell’iniziativa Solo Olive Italiane di Unaprol, «il vino italiano, dopo lo shock del metanolo, ha smesso di produrre grandi quantità a basso prezzo per puntare sulla qualità. E oggi, a quasi 30 anni di distanza, i nostri produttori presidiano i vertici del mercato mondiale, esportiamo la metà del vino di allora e fatturiamo sette volte tanto. L’extravergine italiano deve sapere fare, deve essere messo in condizione di fare, lo stesso salto verso la qualità, verso produzioni più competitive e a maggiore valore aggiunto. Nella convinzione che quando l’Italia fa l’Italia è imbattibile».
Purtroppo, caro Realacci, il paragone non regge. Lo scandalo del vino al metanolo era frutto di comportamenti fraudolenti di alcuni produttori. L’extravergie italiano-che-italiano-non-è, smascherato dal New York Times, è frutto di scelte aziendali di grandi gruppi dell’agroalimentare, italiani e non. Come la spagnola Deoleo, proprietaria dei marchi Bertolli, Carapelli e Sasso, il cui presidente Jaime Carbò ha affermato di recente: «Abbiamo la libertà di comprare olio in ogni parte del mondo e domani saremo liberi di confezionarlo in ogni parte del mondo. Quest’anno abbiamo comprato olio australiano, lo abbiamo confezionato in Europa e lo abbiamo venduto in America». E infatti il New York Times se n’è accorto.
Le iniziative come quelle di Unaprol sono importantissime, e contribuiscono a sensibilizzare il mercato sulla riconoscibilità dei prodotti italiani. Ma il ragionamento diventa surreale se si ignora (o si finge di ignorare) cosa accade realmente negli oleifici e nei negozi. Lo scandalo dell’extravergine tarocco non è frutto di comportamenti illeciti, ma di strategie aziendali che puntano a vendere olio straniero sotto brand italiani. Sui banconi dei supermercati una marca su tre è di olio #italianomanontroppo. Ma nell’insieme questi extravergine «senza origine» (di solito sono etichettati come originari dell’Unione europea, che non vuol dire nulla), occupano il 55% dello scaffale. E questo, più o meno, è il loro peso di mercato. I produttori, caro Realacci, non vogliono fare alcun «salto verso la qualità», sono felici della confusione normativa esistente, con l’Europa impegnata a fermare le leggi italiane sulla tracciabilità. Ci sguazzano e fanno profitti, sputtanando il made in Italy in tutto il mondo. Questa è la realtà delle cose. Perché fingere di ignorarla?
Posso capire che i produttori di vero olio italiano al 100% non escano allo scoperto temendo la reazione dell’industria alimentare. Ma a un politico come Realacci, oltretutto presidente della Commissione Ambiente e Territorio della Camera, queste amnesie non sono concesse.

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