I calzaturieri premono per il “made in Italy” obbligatorio. Sarà solo assemblato in Italia

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Se tutto va bene avremo le scarpe tricolori con tanto di etichetta made in Italy. Ma saranno, comunque, #italianemanontroppo. Oggi a Milano Assocalzaturifici ha presentato l’aggiornamento sulla proposta di regolamento per l’etichettatura “made in …” obbligatoria a cui sta lavorando il Parlamento europeo da oltre un anno. Ne ho scritto sul blog poco più di dodici mesi fa (ecco il link). Made in: ultima chiamata, era il titolo della tavola rotonda che si è svolta al Park Hayatt Hotel di Milano. La chiamata è quella al Parlamento Ue ed è l’ultima perché gli eurodeputati si riuniranno in seduta plenaria a Strasburgo il 16 aprile proprio per pronunciarsi sulla proposta di regolamento. L’ultima seduta prima delle elezioni destinate a rinnovare l’assemblea.
Vi faccio grazia dell’iter che ha condotto alla formulazione dell’attuale testo. Basta sapere che i precedenti 18 sono stati bocciati dalla solita, odiosa, supponente Germania. E la Commissione Ue si è adeguata. Il punto critico sta nell’articolo 7 del Regolamento che Assocalzaturifici (aderente a Confindustria) chiede di approvare al più presto e che recita fra l’altro:

Ai fini della determinazione del Paese di origine (…) si applicano le regole di origine non preferenziali stabilite agli articoli da 23 a 25 del Regolamento del Consiglio n. 2913/92 che stabilisce un Codice doganale comunitario.

Fin qui, direte, cosa c’è di male? Nulla, se non che l’articolo 24 del codice Doganale comunitario prevede una sonora fregatura. Eccola (attenzione alle parole in rosso):

Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.

E in effetti, per stessa ammissione dei  partecipanti all’evento dell’Assocalzaturifici l’etichetta made in Italy si applicherebbe anche a prodotti ottenuti da semilavorati importati da altri Paesi: tomaie e suole di scarpe belle e pronte da incollare qui, abiti già tagliati da cucire, ma chissà in quale proporzione (e chi controlla?). Grande scandalo quando il sottoscritto ha fatto presente che in questo modo si rischia di dare la patente di italianità a prodotti soltanto rifiniti nel nostro Paese! Come salire sull’altar maggiore del Duomo di Milano e urlare un bestemmione…
Unica nota davvero positiva della mattinata l’intervento dello stilista Luciano Barbera, ospite come me, che ha proposto di copiare il modello americano che prevede due categorie di prodotti, quelli made in Usa e gli altri, ottenuti da semilavorati, che vengono etichettati come assembled in Usa.
Debbo aggiungere che all’evento hanno partecipato pure tre eurodeputate italiane (il richiamo della imminente campagna elettorale fa muovere anche le montagne!),   Lara Comi (Forza Italia), Cristiana Muscardini (Ppe) e Patrizia Toia (Pd)  che hanno difeso a spada tratta l’accordo raggiunto per il Regolamento, pur con l’ambigua formulazione dell’articolo 7. Il senso della loro difesa l’ha dato il vicepresidente di Assocalzaturifici, Diego Rossetti: “Piuttosto che niente è meglio piuttosto”. Anche se a differenza di ora, grazie al “piuttosto” rischieremo di trovare in vendita – lo dico da consumatore – prodotti con la carta d’identità italiana, ma che da noi hanno subìto soltanto la rifinitura finale. Ora l’etichetta d’origine è volontaria e per lo meno non ha alcun elemento di ufficialità.
«Rendere obbligatoria l’indicazione d’origine significa tutelare l’eccellenza, la qualità, l’artigianalità e il saper fare italiano, che rende il made in Italy unico in tutto il mondo», ha chiosato Rossetti alla fine della tavola rotonda. Peccato che l’origine rischi di non essere quella dichiarata sulla confezione.
Una posizione, quella di Assocalzaturifici, che ricorda stranamente (ma non troppo) il modello di made in Italy a tavola tanto caro alla Federalimentare, pure lei aderente a Confindustria: non è importante l’origine delle materie prime, quanto se vengono  lavorate con la ricetta e con le tecnologie italiane.
Ma allora perché non ispirarsi davvero agli Usa? Ecco, nell’infografica qui a fianco, pubblicata dal sito Themadeinamericamovement.com, come funziona l’etichettatura negli States…
Sempre che, come è accaduto con l’extravergine, gli americani non si accorgano prima che rifiliamo loro del #madeinItalymanontroppo a vagonate. Allora sì che ci sarebbe da ridere!

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